‘Doktor Wolf’ – L’incontro di studio nell’Obersalzberg

1992. Un piccolo gruppo di studiosi – di diverse nazionalità – dalla denominazione ‘Amici dei Lumi’ si incontra a Berchtesgaden, in Baviera. Nella magnifica cornice rupestre, i cinque parlano, studiano e scrivono di Adolf Hitler e del suo tempo: perché è questo il tema di studi che hanno scelto per l’anno in corso. Ma durante il convegno si discute anche della Riunificazione delle due Germanie, evento relativamente nuovo ma che già getta ombre cupe sulla vita di molti tedeschi…

Questo è, in sintesi, il contenuto di Doktor Wolf – Storia di Hitler e del nazismo. È un libro (che a me piace definire “docuromanzo”) che iniziai nei primi anni Novanta e che mi sono interstardito a “salvare” attraverso tutti questi decenni e attraverso i vari vagabondaggi da me intrapresi.

Qualche mese fa ho finalmente rispolverato il malloppo di fogli battuti a macchina e, oggi, Doktor Wolf è un file .doc, che conto di ricorreggere in fretta per pubblicare in formato eBook, rendendolo così facilmente accessibile a tutti.

Di seguito, le prime paginette di Doktor Wolf – Storia di Hitler e del nazismo.

 

I N T R O D U Z I O N E

S U

C E L L U L O I D E

 

‘MARCIA FUNEBRE’

Guardo le immagini terrificanti che scorrono sulla tela stesa sopra una specie di leggio. Paola va commentando, nell’inglese che ha imparato negli States, le scene di macerie e devastazioni, di madri in lacrime, di scarni cadaveri che vengono gettati su una catasta di resti umani. “Per gran parte delle riprese” ci ragguaglia, “gli anonimi operatori dell’epoca hanno usato un’apertura di diaframma inadatta.”

Nella semioscurità riesco a scorgere di lei solo la linea della testa – ornata dai lunghi capelli sciolti –, la linea del braccio, mosso dalla calorosa loquela, e la linea del fianco, che ricordo agile e sapiente.

“Curiosamente, dalle sequenze che illustrano gli assalti… ecco, questo per esempio… risalta l’intelligenza filmica di cui era dotato il ministro della Propaganda del Terzo Reich.” Paola parla e parla, mentre i mortai si scatenano e le milizie capitanate da un lazzarone gallonato marciano su capitali ipnotizzate. Una volta di più lei ha arrecato un validissimo apporto ai nostri studi, saccheggiando disparate cineteche e cucendo insieme spezzoni di pellicole ingiallite. “Come ha scoperto il regista Werner Herzog, Goebbels aveva ordinato ai cinematografari della Wehrmacht: ‘Il soldato tedesco carica solo da sinistra verso destra!’ I risultati sono stupefacenti” rileva, tornando a rivolgersi ai quadri agitati che ci suscitano ribrezzo e incredulità, che ci incutono terrore, benché sembrino tratti da un documentario girato nel Paleozoico. “Infatti i movimenti da sinistra verso destra sono più convincenti di quelli da destra verso sinistra. Come mai? Forse perché scriviamo e leggiamo da sinistra verso destra? Certo è che nel cinema si sono affermate alcune regole fisse, rituali, un linguaggio recondito che, indubbiamente, è familiare anche ai registi di sketch pubblicitari. Già ai suoi tempi Goebbels sapeva che certe posizioni della cinepresa sono più ‘ad effetto’ di altre.”

Mentre ci passano dinanzi le strade prive di ogni proporzione di Dresda, Berlino e Düsseldorf all’indomani della guerra, mi domando a chi riuscirà, quest’anno, di andare a letto con Paola. Sarò io il preferito? O sarà Ludwig a spuntarla ancora?

Ludwig Ludwig, viennese marxiano, mi siede accanto, tutto teso verso la turpe e caotica successione di immagini oscillanti in maggioranza sfocate. “Crazy!” lo sento esclamare.

Non c’è dubbio che anche stavolta il mio rivale in amore è più avvantaggiato di me. Il tema scelto da Rudnicki – “il “Grande Vecchio”, come noi lo chiamiamo – offre tutti gli spunti possibili e immaginabili per un dibattito ideologico, e in ambito ideologico l’agguerrito professorino austriaco ha in Paola una sicura alleata.

Ludwig si è presentato al convegno, come sua abitudine, in un assortimento di vestiario capace di imprimere una spinta verso l’alto alle sopracciglia del Grande Vecchio: jeans slavati pur se comprati di recente, camicia gialla col motivo di farfalle giulive, scarpe vampa (indorate e con un abbozzo di coccodrillo) che lasciano l’alluce scoperto e, a coronare il tutto, collana d’oro con pendaglio a forma di scorpione. In qualche modo, il professorino assomiglia a Paola; potrebbe quasi esserne il fratello.

“Crazy!” ripete, a fronte di alcuni dagherrotipi che sfavillano di morte e distruzione. Anche Paola usa spesso questo termine: “crazy”. Entrambi indugiano volentieri sulla sillaba iniziale, prolungandola a seconda del peso che desiderano conferire all’esclamazione.

La giovane e impegnata cineasta continua a chiarirci, a elucidare, a farci presente che. Il suo inglese è ricco di interpunzioni e “hmmm” e “as we see…”. Non raramente, ogni frase appena cominciata viene interrotta dalla seguente, in quanto le scene che ha montate insieme (“Alcune sono inedite” ci assicura) sono di breve durata. Per quest’occasione non si è preparata alcun testo da cui leggere. Ma già, perché avrebbe dovuto? Appena proferite, le parole bruciano in fiumi roventi, arrostiscono nei deserti di bombe, vengono schiacciate dai cingoli dei carri armati, stecchiscono nelle steppe gelate, affogano nel mare di detriti. Lei non si arrende e parla e parla. L’acciaio dei mezzi blindati sfrigola, aeroplani precipitano sulle città come frecce infuocate, feriti si reggono le budella con le mani… Non riesco a immaginare altri temi, al di fuori della guerra, capaci di farla appassionare così, donando ali alla sua verbosità concettuale.

Quale colonna sonora, ha voluto scegliere la chopiniana Marcia funebre. Non del tutto a proposito, secondo me. In questo caso avrebbe dovuto forse consultarsi con Endresz, altro egregio componente del nostro collegio di studi. Però, se mi volgo a guardare l’uomo, che si è situato all’ombra della mia ombra, e lo scorgo e non lo scorgo tutto aggobbito come in un semicupio, mi rinvengono l’apatia e il grigiore che così tanto mi disturbano di lui, e mi sorprendo a chiedermi se Endresz sia davvero in grado di scovare analogie, accumulare nozioni e trarre dall’insieme degli elementi una conclusione logica. Confesso che non stravedo per l’ungherese, malgrado lui vanti grande fama come riscopritore e interprete sublime di sonate concerti polonaises mazurke danze scherzi préludes studi nocturnes improptu e valzer. Ho il sospetto che Endresz passi per tipo geniale ed equilibrato non solo per la sua bravura di dirigente ed esecutore, ma soprattutto per l’aspetto sofferto, l’avarizia discorsiva, per la sua eterna aria da negromante.

Ma che conta, d’altronde? Endresz non infastidisce. Escludo categoricamente che il suo nome possa accludersi alla lista di chi aspira ai favori amorosi di Paola. Non che lui debba per forza essere un mavais coucheur (non alludo a ciò; dopotutto non ne so niente), ma la sua indifferenza, la sua impassabilità dolorosa non sembrano appropriate a incoraggiare un flirt o un’avventura pepata.

“And here…” annuncia ad un tratto la regista, “here is HE! Eccolo.” Dal mio punto d’osservazione, l’indice di Paola fa il solletico al naso dell’efferato personaggio che adesso ci scruta dallo schermo con occhi cupi di riprovazione. Sta quasi per dirne il nome, ma:

“No!”

Ernestus Rudnicki, questa volpe ultrasettantenne, si è alzato dal suo trono nell’ultima fila della sala per avanzare verso il primo piano dai contorni poco netti. Si situa tra il proiettore e l’immagine magnificata del Führer e ci invita: “Non pronunciatene mai il nome. Mai“. E aggiunge, dopo una pausa: “Porta male, sapete”. Ride, riuscendo tuttavia a rimanere serio.

È un individuo portentoso, Rudnicki. Avrete già sentito parlare di lui: affermato critico letterario, che tra l’altro conduce un seguitissimo programma televisivo sui libri, sui romanzi, sulle novità editoriali. È considerato – e non solo in Germania – tra i migliori intrattenitori locupletanti del Grande Circo degli intellettuali. È una potenza, una torre incendiaria, e il suo entusiasmo è contagioso. Gli riesce persino di svecchiare noi stanchi, noi disillusi trentenni. Ritengo una grande fortuna l’essermi imbattuto in lui, e se lo chiamo “Grande Vecchio” – sicuramente più spesso di quanto non facciano gli altri – è per una forma di riverenza. Rudnicki sa benissimo come rendere più avvincenti questi nostri incontri annuali, dei quali è lui a proporre l’argomento. E, a ben vedere, è anche la persona che, durante i nostri meeting, si diverte maggiormente.

“Sì” sta tuonando, vagamente asmatico, “eccolo. Asceta, vegetariano, amante degli animali… Un anacoreta al vertice della piramide del Potere. Eccolo, il responsabile di laceri esilii, tradotte sanguinose, lamenti di deportati, odissee senza pari! Da un lato si mostrava cordiale con le sue segretarie, i suoi domestici, il suo autista; dall’altro, le sue visioni da megalomane si concretizzavano in montagne di cadaveri. Non era un sensuale: non approfittò della sua posizione per trarne goduria corporale… non apertamente, almeno. Si lasciava fotografare e filmare in compagnia dei suoi cani. Li accarezzava, li viziava. Nel contempo, lasciava morire d’indigenza i detenuti, o torturati e scannati vivi. Signori!” la voce di Rudnicki cresce di uno o due toni, facendo sobbalzare finanche Endresz. “Signori… Doktor Wolf!” e indica il fotogramma baluginante, con smorfia spaventevole. “Il più clamoroso esempio della pericolosità del culto di capi carismatici.”

Lo schermo torna a ravvivarsi: Doktor Wolf che arringa una folla militarizzata a Norimberga, Doktor Wolf che come una marionetta passeggia in compagnia di alcune marionette di generali in un giardino di Prussia, Doktor Wolf che tiene un’arringa dentro una delle sue tane corazzate… “Mi rammenta un po’ il Kaspar di Peter Handke” dico.

Ludwig Ludwig mi ride nell’orecchio in segno di assenso, ma a Paola Bonfanti il paragone dispiace. “Non diciamo maccaronate” mi redarguisce, sottintendendo con palesità alla mia, alla nostra origine belpaesana. “Non ridicolizziamo tutto.” Come se io non prenda sufficientemente sul serio la materia!

Rudnicki asseconda il suo intervento: “Giusto. Non riduciamo questo tremendo dramma ai minimi termini. Peraltro, prima di noi ci hanno già pensato tanti parlabene. Storici da strapazzo… anche sinistrorsi” ribadisce acribico, sbirciando Ludwig nella penombra “… che hanno definito Doktor Wolf, questo pazzo sterminatore, un delinquente comune, cercando così di rendere semi-innocua la sua icona e infondendole un alone di fascino. È proprio con Wolf che il crimine diviene totale…”

“Ciò” riprende Paula, richiamando la nostra attenzione su altre scene, strapazzate e strapazzose, inerenti l’Olocausto, “ciò dovrebbe essere sufficiente per far passare a chiunque la voglia di sdrammatizzare. Impossibile sorridere anche solo di sfuggita davanti alla mostruosità di tale personaggio!”

Mi permetto di contraddirla: “Una psiche alterata, anche se si rende colpevole di atti estremamente spaventosi, quasi sempre è vettrice di comicità involontaria”.

“A dire il vero, in me il nazismo non ha mai procurato accessi di ilarità” borbotta seccamente il Grande Vecchio. “Comunque, se Doktor Wolf nasconda o meno dei lati umoristici, potremo appurarlo solo anatomizzando la sua biografia. Notabene. Poco prima di suicidarsi, egli asserì: ‘Il mio merito maggiore è stata la decimazione della razza ebrea’. E voi vorreste ridere?” Torna a volgersi verso la tela di lino e le ombre sul suo viso acquistano una configurazione difforme, come uno stormo di corvi in brusca virata. “Oggi si prende per scontato che i terroristi siano tecnocrati del crimine” si mette a riflettere ad alta voce, calcando su alcune consonanti più di quanto non sia solitamente avvezzo a fare. (Voglio chiarirlo: l’inglese di Rudnicki non è poi tanto peggiore del nostro.) “Vi sono delle terre governate da gaglioffi… il caso di Saddam Hussein è solo il più eclatante degli ultimi tempi. Costoro sono veri e propri specialisti della repressione violenta della controparte politica e di interi gruppi etnici. Ora, vediamo: dobbiamo attribuire a Doktor Wolf e ai suoi accoliti la primogenitura di questo genere di assassinio premeditato e organizzato su ampia scala? O qualcuno di voi è a conoscenza di una qualche tirannia, precedente al nazionalsocialismo, smaniosa di compiere un eccidio con uguale metodicità?”

“Uhm” dico, ma Ludwig Ludwig è lesto a precedermi.

“Beh” attacca, dopo essersi raschiato la gola, “nel cammino dell’umanità gli eccidi non si contano. Anteriormente all’Olocausto ci fu il Massacro degli Armeni da parte dei Giovani Turchi… Nei secoli remoti, le tribù vittoriose trucidavano i sopravvissuti delle tribù perdenti, donne e bambini non esclusi: per scongiurare il rischio di una loro vendetta futura. I capi saggi di enormi imperi, al contrario, evitarono là dove possibile le ecatombi, giacché il controllo di feudi estesi e lontani implicava necessariamente il lavoro e l’energia delle popolazioni ivi stanziate. Usavano dunque il materiale umano per sfruttare le ricchezze del suolo e del sottosuolo. Loro ci tenevano inoltre a mantenere l’equilibrio etico-sociale preesistente, onde evitare rivolte contro la nuova autorità. Le reclute fresche, poi, allettate dal soldo o convertitisi alla religione o all’ideologia dei vincitori, rinfoltivano i ranghi delle legioni. Per parlare di genocidio vero e proprio, portato avanti con sistematicità… ripeto: c’è da prendere in considerazione l’olocausto degli armeni durante la Prima Guerra Mondiale. Una vera porcheria, se pensiamo che non è stato compiuto a scopo di profitto. Ovvio: sarebbe stata una porcheria anche se ci fosse stata una motivazione utilitaristica. Ma così… uccidere per il gusto di farlo…”

“Il genocidio condotto razionalmente è un’invenzione wolfiana.” Rudnicki si massaggia le guance. È un bene che il filmato sia muto, a parte Chopin: sarebbe altrimenti impensabile poter discutere, argomentare in maniera decente. “Gli ebrei: naturale! All’irrompere del ventesimo secolo, gli ebrei avevano sperato: finalmente pace! La maggior parte di loro si era adeguata e conformata, ambendo a non disturbare più del necessario il sensibilissimo odorato e la vista delicata di chi li ospitava. In Germania, gli ebrei ormai mangiavano, si vestivano, parlavano e scrivevano come gli altri. Il nazionalsocialismo non ne ha condannato la religione, la credenza spirituale, ma ha condannato… la stirpe! La liquidazione indiscriminata degli ebrei, e degli zingari, così come lo ‘sfoltimento’ della razza slava, erano tra i punti principali del programma nazista.”

“Non dimentichiamoci della persecuzione dei cosiddetti ‘ebrei bianchi'” torna a farsi sentire Paola. “Venivano chiamati così, ‘ebrei bianchi’, tutti quelli che erano contrari al nazismo. Tra di loro erano non solo politici, giornalisti, scrittori… ma anche persone semplici, cittadini comuni di ferme convinzioni. Tedeschi, beninteso. Chi non riuscì a espatriare in tempo, fu deportato: al pari degli ebrei!”

Rudnicki ricapitola: “Abbiamo dunque a che fare con esperti e ingegneri della morte indotta”.

“Già. Si trattò di una vera e propria industrializzazione dell’omicidio” constata il sottoscritto.

In quella, il fiume di tremende sequenze viene interrotto da una soprascritta, bianca su sfondo nero, simile a quelle dei primordi del cinema:

 

 

“Prima del 1933, in Germania vivevano 600.000 ebrei. – Nella Bundesrepublik se ne contano oggi pressoché 27.000, dei quali appena 1.000 nei circondari dell’ex DDR.”

 

 

Poi riprende la sequela di spezzoni di documentari: un convoglio ferroviario pronto a partire, stracarico di prigionieri e guardato a vista da soldati; scene giornaliere nel lager di Mauthausen; l’ispezione dello stesso lager (o forse è un altro) da parte di un alto gerarca…

L’ennesima intromissione di Ludwig viene preannunciata da un suono come di campanellini: sono gli ammennicoli che cingono le membra del viennese, braccialetti e altri orpelli tintinnanti. Ludwig ci tiene a informare chi di noi non lo sapesse: “Ancora oggi, proprio qui, nella patria dei responsabili della carneficina, mancano studi di ricerca, centri di documentazione, grandi musei, obelischi commemorativi come ce n’è a Yad Vashem in Israele, come l’Holocaust Memorial Museum di Washington o il Museum of Jewish Heritage di New York”.

“Proprio così” conferma il Grande Vecchio, che intanto è tornato a sedersi o, più propriamente, ad accasciarsi. “Se vogliamo prescindere dai campi di concentramento che oggi si possono visitare… abbastanza commemorativi e riprovanti, senza dubbio… Vedi Dachau, presso Monaco di Baviera.” E subito dopo, visto che l’osservazione di Ludwig è suonata suppergiù come un’accusa nei suoi confronti (perché tedesco), ci tiene a precisare, con voce stizzita e ironica insieme: “Non scordiamoci, giovane amico, che Wolf vide la luce in Austria”.

“Che!” esclamo. “È vero?”

Occhiate silenziose accompagnano la mia interposizione. Solo Paola mi rivolge un sorriso di tenerezza. Lo intuisco, più che scorgerlo, nel crepuscolo artificiale che inizia a darmi ai nervi.

“Ancora una puntualizzazione” riprende Rudnicki, con immutato ardore. Oggi è alquanto battagliero. Può diventare un orso, quando gli prende. “Palesemente, allo sterminio degli ebrei erano interessati anche altri. Nella sua Russia…”

Ludwig mette le mani in avanti. Dlìn-dlìn! “Non è la mia Russia.”

“Per affinità di idee, potremmo dire.”

“No, no.” Ludwig ride. “No.”

“Crazy!” miagola la Bonfanti, divertita dalla scaramuccia verbale.

“Ad ogni modo!” tuona il Grande Vecchio.”Stalin: altro esemplare con la tendenza alla carneficina. Nel ’43 i soldati della Wehrmacht scoprirono, nelle vicinanze del villaggio russo di Katyn, i cadaveri di più di 4.000 ufficiali polacchi, barbaramente uccisi dopo essere stati tenuti al giogo nel campo di prigionia di Koscelsk.”

“Stalin non fu mai un mio grande amore.”

“Se nel nome di un’ideologia si fanno stragi, si tratta di un’ideologia inaccettabile.”

“Oppure l’ideologia è stata mal interpretata” ribatte Ludwig, pronto. Ludwig è un duellante eccelso, debbo riconoscerlo. Ha affilato la sua sciabola in numerosi salotti rossi o rosé.

“Un’ideologia che può essere mal interpretata, ebbene, puzza” taglia corto Rudnicki. Ha detto proprio così: “puzza”. Lui e l’affusolato teorico marxiano potrebbero intrattenersi in tedesco e condurre una conversazione certamente più brillante… oppure brillantemente farsi la pelle a vicenda. Invece parlano in inglese, rispettando la nostra presenza e rendendoci usufruttuari di una succosa scenetta.

Stinks” si fa l’eco il Grande Vecchio, quasi strozzandosi. E si precipita poi a spegnere il proiettore (per un attimo le sue spalle curve, con sopra incollata la testa priva di collo, si stagliano sul telo, crescono fino a coprire lo spazio bianco, prima di scivolar via, di lato), mentre esclama, con sufficiente teatralità: “Luce! Più luce!”

Allungo una mano e schiaccio l’interruttore ed ecco che tutti noi strizziamo gli occhi; tutti meno Rudnicki, che è miope e ha i suoi protetti da due fondi di bottiglia.

“La finestra!” ordina. Endresz non si muove: non capisce o è perduto in chissà quali elucubrazioni (lo sguardo d’acciaio, ma il resto del volto acciuchito: stupenda stupidaggine di un superstite). Ludwig Ludwig allora esegue. E io posso spegnere la luce. Una giornata che promette bene ci sorride insieme al mirabile paesaggio di alture e contrafforti a fronte delle Alpi Austriache, che fanno da proscenio all’albergo in cui ci siamo radunati.

Attizzati, io e Ludwig fissiamo Paola. Ludwig è di almeno un palmo più alto di me ma decisamente allampanato e un po’ bracalone nell’abbigliamento nonconformista. Mi aggiusto la cravatta. Anche Paola non è vestita esattamente come una persona ammodo e ha occhi arrossati come di televisionaria incallita; ma molto donna, molto attraente. Sta annuendo, comprensiva, al piccolo e corpulento Rudnicki, il quale, tutto energie, le sta dicendo, intronante: “Sappiamo apprezzare il suo lavoro, signorina Bonfanti. Ma così, tutto in una volta, è troppo. La morte en gros et en détail… è troppo. Da fare accapponare la pelle anche a un uomo vetusto come me”. Tira fuori l’orologio dal taschino. “Propongo di andare a pranzo. Nel frattempo potremo meditare su quello che abbiamo visto finora. Ci toccherà dare un’occhiata anche alle foto che ho portato. Il resto del materiale filmografico lo passeremo in rassegna nel tardo pomeriggio.”

“Anch’io penso che è meglio” dice il viennese, e offre a Paola una sigaretta. Ci volgiamo verso la porta. Endresz è l’ultimo a lasciare la saletta dei convegni e, come sempre, è tutt’altro che in cimbali. Mi dà fastidio il suo alito, caldo come il simun, sulla mia nuca. Perciò mi giro, mentre attraversiamo il vestibolo, e gli chiedo cortesemente come se la passa nel suo attuale asilo, in Inghilterra – Londra o su di lì.

Scriviamo l’anno 1992. La Cortina di Ferro è già stata abbattuta. Gli anni in cui decine di migliaia di profughi slavi erano dispersi nell’Europa Occidentale con il destino appeso ai fili sottili della diplomazia sono, apparentemente, una realtà d’ieri. (La guerra civile in Iugoslavia è appena divampata.) Sennonché, parecchi esuli sballottano tuttora qua e là, motu proprio. Nell’ultimo decennio, il musicista ungherese Béla Endresz, a causa del vento della politica (e poi anche per necessità economiche), ha vagolato per tutto il Continente. Ombroso e in stato confusionale. Soltanto fino a due anni aveva residenza a Parigi, dopo è stato a Roma, in Catalogna e a Lisbona, finché non è approdato nella Terra di Albione. Spesso, ospite di mecenati o di istituzioni culturali. Maestro Rimbamba, che da un decennio e più lavora a una mitica opera lirica, forse un capolavoro che passerà alla storia come il più lungo “biglietto d’addio” mai scritto da un suicida.

Impiega molti secondi a recepire la mia domanda. Sto per arrendermi quand’ecco che, all’improvviso, lui esce dalla catalessi; si schiarisce la strozza sputacchiando tutt’intorno particelle d’ossido d’uranio insieme alla saliva e mi dice:

“Well”.

Ci fermiamo come un sol uomo per guardarci stravolti negli occhi. Infine Endresz comprende l’intera portata della sua risposta ed esplode in un raglio tragico.

Risata da italiano ammattito, mascella salda da ussaro, occhiaie da vittima di una dittatura, lunghi silenzi da fuggiasco che sospetta un agente del KGB in ognuno che passa: quest’uomo affronta persino le nostre innocenti riunioni annuali come se fossero l’incontro segreto di complottisti, di neocarbonari. Gli batto una mano sulla spalla, per ritirarla piena di forfora. Vorrei dimostrargli tutta la mia comprensione e almeno un po’ di amicizia (in fondo, come compositore e direttore d’orchestra fa parlare bene di sé), ma intanto si è rifatto furtivo, tutto tic. Abbassa la saracinesca del già affiochito spirito e si rintana nelle meno accessibili regioni dell”io’ ugro-finnico.

“Allora, venite, sù!” ci esorta la siluetta in controluce di Paola, ritta sulla soglia. Indossa, sul sari, una vecchia giacca di pelle di daino. Ma sulle gambe la stoffa risulta come trasparente.

Sospiro.

Ludwig e Rudnicki sono già all’aperto. Mi affretto anch’io a uscire al sole.

 

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