Kaddish – parte 2

Dal libro Doktor Wolf – storia di Hitler e del nazismo, di prossima pubblicazione.

 

 

‘Il giovane ebreo, dai capelli corvini, sta in agguato per ore, con satanica gioia sul volto, in attesa dell’ignara ragazza, che lui disonorerà col proprio sangue, sottraendola in questo modo al popolo tedesco. Egli cerca con tutti i mezzi di guastare il fondamento razziale del popolo da soggiogare.’

 

(Dal Mein Kampf)

 

 

Il ponte. Basterebbe mettersi a cavalcioni sul parapetto e poi scivolare dolcemente nel vuoto, chiudendo gli occhi come se ci si stesse accingendo a dormire. Das Ende. Solo per via dei capelli corvini? O della circoncisione per tradizione? Tra le lacrime causategli dal gelo, ha una visione che non sapeva propria: si vede aggirarsi per Gerusalemme, la città santa. Ritorno alle radici. Dentro un frammento di tempo vede rispecchiarsi la Moschea di Omar e la Porta di Damasco.

All’angolo successivo tentenna: scorge una squadra di SA che gli viene incontro. Risoluto, si erge sul busto, emula la loro maniera guerresca di muoversi e alza il braccio teso esclamando, forte e limpido: «Heil!»

Rispondono al saluto senza neppure fermarsi a controllare la sua identità. Potenza della parola di riconoscimento! In fondo è come lo shibboleth biblico.

La combriccola è già lontana quando Paul si accorge, costernato, di stare abbassando il braccio troppo piano. Tartagliando bestemmie, e senza un motivo particolare, si mette a correre, per quanto glielo permetta l’asfalto scivoloso. E presto, senza più fiato ma contento, si ritrova nella strada dove abita Monika. Via del Ludibrio. Avanza verso il portone che tanto bene conosce, con le suole che sbandano nella mistura di brina e fango ciac ciac.

Un concerto per violino e orchestra gli risuona nella mente accompagnandolo su per le scale, fino a quando non si trova davanti all’uscio sacro. Ha il respiro affannoso, in seguito alle 12 rampe di gradini stretti e ripidi. 12 sono le tribù d’Israele, 12 gli apostoli, 12 gli aspetti dell’uomo cosmico e dell’uomo terrestre. Significativo.

Bussa.

«Ciao» lo accoglie lei, con voce dolce.

Paul esita sul pianerottolo. Sbircia dietro la ragazza. (“Perché non entri?” domandò il ragno alla mosca.)

«Sono sola» lo rassicura Monika. Stasera indossa un maglioncino che fa risaltare le proporzioni del seno, insieme a pantaloni da amazzone, secondo l’ultima – o penultima – moda. Paul cerca di immaginarla con un velo a coprirle i capelli: finanche vestita all’araba Monika sarebbe stata meravigliosa. La studia, prende tra le dita una sua ciocca bionda, quindi la fissa nelle pupille. Conviene, tra sé e sé, che in questo momento agognano entrambi alla stessa cosa.

Lei gli tiene la porta aperta ma Paul, prima di entrare, vuol sincerarsi che nessuno dei vicini stia a spiare. La scala è vuota. Pensa alla scala di Giacobbe, il cui schema illustra le correlazioni tra spirito, corpo, anima e divinità.

«Grazie» dice roco, scivolando all’interno.

È un piccolo appartamento, arredato con oggetti semplici e perciò funzionali, come se fosse una dimora temporanea, una sistemazione di comodo in attesa che i muratori finiscano di completare il maniero o la villa. Il ritratto di Hitler, al di sopra del comò dove poggia il Ricevitore Popolare, è l’unico ammennicolo superfluo. Ritorna con la mente al soggiorno della casa che gli fu propria: dappertutto i dipinti di Papachi, di paparino; a una parete, la foto di un vecchio barbuto con la yarmulke (o kippah); in un angolo, il candeliere a sette braccia – allegoria dell’albero della vita. E poi i soliti mobili e soprammobili che si potevano vedere in tanti ambienti domestici, anche teutonici. Qui, nella più spoglia magione dei genitori di Monika, regna un disorganizzazione decente, probabilmente intenzionale. Come elementi piovuti da un’altra dimensione, spiccano la brocca di cristallo sul tavolino e il piccolo roseto accanto alla finestra.

«Siediti» lo invita lei. Poi si avvicina alla radio e gira la manopola, prima di volgersi a guardarlo con aria indagatrice. «Come mai così triste?» domanda. «Ti è successo qualcosa di brutto?»

Paul sorride. È successo, succede continuamente. Hanno distrutto le sinagoghe, mi hanno ingozzato di carne di animale impuro. Domani è shabbat, il settimo giorno, la nostra “domenica”. Lo festeggerò per la prima volta in vita mia. Mi pento adesso di non aver prestato orecchio allo zaddiq, da bambino: domani potrei ripetermi le leggende su Abramo, Mosé, Salomone; potrei ricordarmi di storie chassidiche circa gente semplice, intonare una monodia, rifarmi agli esempi della dottrina del giusto vivere. Sarei preparato, insomma, per il giorno sacro.

«Domani è shabbat» dice, sempre sorridendo in maniera trasognata.

«Uhm?»

Shabbat. Tutti i peccatori dell’inferno si quietano, le potenze maligne si raddolciscono. La Torah conosce la sua perfetta incarnazione, e voglia e dolcezza vagano per 150 mondi. «Shabbat» ripete a una stupita Monika. Ci sarebbe parecchio da spiegare, ancora più da capire. Preferisce cambiare discorso, il discorso che ha iniziato nella sua testa. «È un bel motivo» dice, indicando la radio. E torna in piedi come una molla. Sì, proprio una melodia piacevole si è sprigionata dall’altoparlante, un vero casino di note legate alla situazione attuale. «Vuoi ballare? Ma prima…» E va a girare contro il muro la faccia immobile di Adolf Hitler.

Lei non ha nulla da replicare. Gli si accosta con grazia, prima aggrappandoglisi addosso e poi sforzandosi di seguirlo nei suoi volteggi da puledro sbronzo. Ballare può essere un preambolo che vale come un altro. Preludio all’unione. Dei corpi. Perché è chiaro che l’amore lo faranno, stavolta. La ragazza non è mai stata tanto disponibile; e i suoi genitori prendono parte al veglione organizzato dal partito (chissà come se la spasseranno!). Lei vorrebbe non saperlo ebreo (da maturi, pondera Monika, finiscono per assomigliarsi tutti: l’alito pesante, si strofinano le mani… e la loro maggiore preoccupazione è quella di fare reibach – soldi), ma è così e non altro, e il tempo stringe. Lui si è scoperto ebreo solo ultimamente e non saprebbe più dire se questo gli dispiaccia o lo renda orgoglioso. Quel che gli dispiace, eccome, è di non aver mai imparato i passi del foxtrot. In realtà non ha mai imparato un bel nulla. Ma Monika è sua, può stringerla a sé e accostare il capo a quello di lei. «Amore» sussurra.

Gli rimangono poche sillabe, ormai, e sa di doverle snocciolare entro quest’ora. Fuori continua a nevicare e non è certo la neve a causare tanto frastuono. Saranno mortaretti… Poiché la giovane si è fermata un attimo per togliersi le scarpe, lui la imita. Fregandosene del pavimento freddo. Un buon ebreo va a piedi nudi unicamente quando qualcuno è morto, rammenta. Un buon ebreo, appunto.

Fin dal principio Monika si è lasciata tenere stretta, non senza conservare una certa involontaria rigidezza; tanto stretta che tra di loro non passa neanche un filo d’aria. Oramai non seguono più la cadenza musicale. La lampadina è come una luna appesa sopra la testa del giovanotto. C’era stata un’altra luna, allora. Quando era stato un mocciosetto. Avrà avuto 5 o 6 anni, non di più. È incredibile come determinate memorie balenino quando sta per accadere qualcosa di grande, di decisivo. Il nonno lo aveva portato alla festa di Sukkot, o “delle capanne”. Era la seconda metà del mese di Tishri, infatti. Danze gaie, per celebrare la fine della vendemmia. Sulle piazze erano state costruite capanne di frasche verdi, a richiamare le tende nei deserti e quindi a commemorare la peregrinazione dopo la fuga dall’Egitto. C’era Selene dunque, lassù, a perpendicolo: proprio come adesso. E il nonno, che allora andava eretto sul busto e poteva farsi chiamare un uomo libero, si faceva notare per la sua allegria. Il giorno dopo, il buon vecchio sfoderò di nuovo la sua aria più austera e si diresse al tempio, recando un cedro nella mano sinistra e agitando con la destra un ramoscello di mirto. E il minuscolo Paul a trotterellargli accanto…

Meno distinto diviene il filo del suo pensiero e più lui si avvicina a possedere una specie d’intelletto chiaroveggente. Lancia uno sguardo di traverso al retro del ritratto del Führer e si stupisce che sulla tavoletta di legno non sia stata disegnata la dittatoriale nuca. Ma le voci che ode, e che in qualche modo interferiscono con l’arietta alla radio, pervengono certamente da quella parte. Grida di strazio e richiami rigorosi («Sta’ zitto tu che un Führer non ce l’hai nemmeno!»), motti insinuanti («Un volto sorridente val più di una lingua sciolta») e intonazioni impetuose («In guardia! Trafiggi! Fino all’elsa s’immerge! Stiletto in punta!»).

La ragazza ha mormorato qualcosa. Ed è adesso che Paul percepisce pienamente la curvilinea, morbida figura che ha tra le mani: generoso dono di una sorte altrimenti balorda. «Ora?» le bisbiglia a un certo punto. Più un suggerimento che una domanda. E un invito improrogabile più che ogni altra cosa.

«Tentiamo» dice Monika, con una nota tremolante in sottofondo. E lascia che lui la conduca verso la cameretta da notte, ancora più sguarnita del soggiorno. Appena varcata la soglia, un’inopinata esitazione s’impadronisce di lei. Si sta chiedendo forse, un’ultima volta, come mai ha deciso di concedersi. O come mai proprio a lui. I monili che porta al collo e alle braccia tintinnano.

«I tuoi non verranno a disturbare?» indaga Paul.

«No di certo.»

«Vieni…» Il giovane “dai capelli corvini” vince la vana, debole resistenza della ragazza “da disonorare” sospingendola prima, e costringendola poi, a sedersi accanto a sé, sulla sponda del lettino. «E tu dormi qui» osserva affascinato, accarezzando la coltre spianata.

«Sicuro. Dove, sennò?»

«Tutta da sola!»

«Oh Paul, Paul. Cosa stai a cianfrugliare?»

Accorgendosi di tremare come lei, si mette a baciarla. E la bacia a lungo, dappertutto, teneramente, quasi castamente. Le bocche si fondono, gli occhi si fissano (quelli di Monika palpitano incerti: farfalle dalle ali paralitiche, schiacciate da uno stato di cose più alto). Le accarezza la schiena, un fianco, il seno, sorprendendosi egli stesso della facilità con cui si avverava un nuovo peccato. È proibito consumare carne e latte insieme, durante lo stesso pranzo…

«Non so…» mormora Monika, nuovamente titubante. Paul deve aiutarla a togliersi il maglioncino e a sbottonarsi il reggiseno.

«Non temere. Non lascerò che ci separino. Mai.» (“Quando il sangue arde, oh, com’è prodiga l’anima!”)

Ad un tratto sono entrambi nudi a sufficienza e finalmente lei si abbandona con le magnifiche gambe distese, ansimando e versando lacrime, quasi voglia concedirglisi e negarglisi nel contempo.

Alla fine si rivela una gattina bisognosa d’amore, nonostante l’impazienza di lui.

La consapevolezza che Monika è sua gli fa quasi emettere un grido di trionfo. In mente gli risuona un sonetto di Michelangelo (Michel’Angelo) dove si dice che la donna è come un blocco di marmo da cui l’Artista sa ritagliare la statua perfetta dei suoi sogni.

 

 

“Amor dunque non ha, né tua beltade (…)

Del mio mal colpa, o mio destino, o sorte.

Se dentro del tuo cor morte, e pietate

Porti in un tempo, e che ‘l mio basso ingegno

Non sappia ardendo trarne altro, che morte.”

 

 

Eh sì: del genio la lascivia esuberante, tra i libri della paterna magione trovata (or sono cinque anni o più) sotto forma di opuscoletto in dodicesima con illustrazioni, che allora gli provocò un intenso formicolio nelle membra. Invero: “‘l mio basso ingegno”. Il corpo di Monika è un giardino vario che lui si permette di arruffare, scombinare a piacimento, fino a ridurlo a una sorta di insalata. Ma anche il suo, di corpo, è tutto rabbuffato, e Paul sembra compiacersene: facciamo un bello sgarbo ai nazisti! Tutto va ben oltre però: qui siamo alla sperimentazione, all’espediente magico-astrologico. Lo stanzino può paragonarsi a un laboratorio (non troppo dissimile dalla “stanza della pittura” di papà) ed è qui che entrambi vengono mutati alchimicamente, transostanziati. È soltanto durante il coito che l’essere umano diventa autentico contributore del processo divino.

Monika si muove pigramente (i gesti parlano un linguaggio che, una volta messo in libertà, si controlla da sé) e, quando infine rialza le palpebre, studia gli amorini che adornano la specchiera accanto al letto. Ed è come se li notasse soltanto oggi.

Paul le bacia i capelli. L’oro che fa male.

«Grazie» dice Monika.

«Non ti ho dato di più di quanto non abbia ricevuto da te» replica, e in questo preciso istante sente la propria pancia lagnarsi in un glissando prolungato. Si stacca dalla sagoma tornita di lei, mette i piedi a terra e raccatta i vestiti. «Copriti o prenderai freddo» le lancia.

«È stato meraviglioso» modula la ragazza. «Avevo paura di dirtelo. Mi vergognavo.»

«Ti vergognavi di me? Ah, capisco: della tua verginità.» Paul le tira addosso la coperta. «E io che mi arrovellavo il cervello» scherza. «Ti immaginavo nelle più sconce pose davanti a un focoso unno.»

Lei ride, ancora rivolta agli amorini. «Davanti a chi?» Poi emette un sospiro felice. Guarda la schiena di lui: un ramo di palma.

Il ramo di palma, che allude alla spina dorsale dell’uomo, deve essere dritto e lungo. Attraverso i movimenti oscillanti del cerimoniere, che regge le piante simboliche, il mondo “superiore” viene unito con quello “inferiore”; le singole piante funzionano come trasformatori d’energia. L’energia è il cibo divino, che i movimenti “verso l’esterno” traggono giù, fino al cuore degli uomini. Non c’è solo la palma a prestarsi per il servizio a Dio: ci sono il mirto, il salice, il limone. Conformemente al principio: ‘Ciò che sta lassù si trova anche quaggiù’, ogni cosa che facciamo sulla Terra è lo specchio di quello che accade nei Cieli.

Paul s’infila la camicia e cela il ramo di palma alla vista di lei.

Due ore a mezzanotte. Va. Dopo aver svoltato il secondo angolo, assiste a una singolare scena. Un omino dal naso ricurvo è stato aggredito da un donnone dai capelli ossigenati. La larga vestaglia di lei non riesce a celare le forme abbondanti e poderose: una seminudità resa ancora più grottesca dalla bassa temperatura. Uno spettrale signore occhialuto, la faccia da morfinomane, cerca vanamente di tirare indietro l’irata moglie, mentre l’omino dal naso ricurvo, imbarazzatissimo, forse impaurito, balbetta sconclusionatamente senza riuscire a sgusciare via dallo stretto spazio in cui si è ritrovato, tra la matrona e il muro accanto all’ingresso di un Wirtshaus. Alcuni ospiti del locale sono scesi in strada e osservano adesso quel numero comico assieme a Paul. Sembra che la terribile femmina stia protestando per una certa somma che l’omino dal naso ricurvo non voleva darle o restituirle. Non si capiva tutto: lei si esprimeva con scoppi di voce, acuti inarticolati e gesti spazzatutto; ma una frase tornava spesso a far da contrappunto increscioso alla situazione altrimenti umoristica: «Il tuo posto è dentro il forno, lurido ebreuccio!»

Si avvicinarono alcuni signori dall’aria inflessibile.e

Paul si rimise in cammino. Per il malcapitato si metteva male, ma lui non poteva far nulla per aiutarlo. Meglio non immischiarsi. E poi, a parte che un ladro o un assassino possono nascondersi anche dietro a una faccia insospettabile, quella faccia può averla anche un idealista di vent’anni. Cadere nel trabocchetto è facile, liberarsi dalla stella a sei punte no.

Udì alle spalle qualche scoppio di mortaretto. Dopo, le voci si placarono.

 

 

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