La casetta a Hafeld

Questo è uno dei capitoli del docuromanzo Doktor Wolf, storia di Hitler e del nazismo, di prossima uscita – in forma di eBook – su Amazon Kindle.

 

LA CASETTA A HAFELD

Uno straccio di ragnatela gli solleticò il naso, svegliandolo. Si rizzò a sedere e, entrando in contatto con le cose che lo circondavano, si rese conto che la luce era spenta e ogni oggetto immobile, al suo posto, pur se evanescente al chiarore lunare. Volse a dritta e a manca il suo viso con gli occhi dipinti. Dal lato opposto della stanza proveniva il leggero respiro del bambino dormiente. Rassicurato da ciò, il pupazzetto di stracci si issò sulle sue gambe da contorsionista – non dissimili da quelle di tutti i pupazzetti come lui – e fece qualche stiramento per sgranchirsi. Tornò ad acuire i sensi, per precauzione: non si avvertiva nient’altro che il ticchettio dell’orologio, oltre al respiro del cucciolo umano immerso nel sonno.

«Bene!»

Andò cerconi, barcollando sul ripiano pillicheroso del tavolo e toccando, con mani prive di dita, l’accozzo di bibló che gli si trovava attorno: voleva sincerarsi che il risveglio non gli avesse riservato un’amara sorpresa, mutando l’universo che era aduso a sentire, sentire, annusare e toccare durante le sue innocenti scorribande notturne; dopotutto non era che un balocco e non si può mai dire che cosa può capitare a una creatura del suo genere. Dunque sentì, toccò, annusò. Sì, era proprio l’ambiente abituale: una dimessa abitazione tra le rughe dell’Europa Centrale. Muro e soffitto, soffitto e muro: i confini del mondo che lui conosceva. Tra di essi, mobili di legno non pregiato. E mai vento, né bruciante Elios. Era lo spazio della consueta desuetudine.

Il pupazzetto inciampò sullo stendibiancheria e, urtando il gomitolo di lana, lo mandò a rotolare sul pavimento. «Acc! Idiota!» esclamò la vittima della sua distrazione. Poi, malaccorto, prese di petto la teiera naticuta dal manico rotto e si sentì dare il consiglio piuttosto sgarbato di tornare una volta svuotato il calice della verginità, mai prima. Ponendo un piede sulle forbici, dovette subire le imprecazioni della reboante regina di Taglio & Cucito. Turbato e vergognoso si allontanò, per cadere inavvertitamente sulle punte aguzze della sclerotica forchetta, facendosi la bua nel fondoschiena. Gridò per il dolore, e allora un popolo assonnato strombazzò coralmente: «Lasciaci dormire! Vattene via, eclìssati una buona volta!» Il coltello a serramanico – la creatura più irascibile della comunità – lo inseguì fino al bordo del tavolo, da dove lui si lasciò scivolare lungo una gamba tarlata.

Ruzzolò sulle mattonelle. Dall’alto, tutti si sporsero, protendendosi minacciosamente. Non poteva vederli, ma ne avvertì la perniciosa presenza al di sopra del capo a forma di pera. Pregando che il bambino non si destasse, alzò la faccia inespressiva ed esclamò a mezza voce: «Perdonate, amici!» Quelli, intransigenti, lo mandarono al diavolo. Dopodiché si ritrassero, ognuno tornando alla pace del sonno.

«Sì, statevene pure lì, nel vostro stabbio», indirizzò loro mentalmente in risposta a tanta angheria. E fu talmente contento di sapersi così diverso dagli altri, con la sua voglia di esplorare, di conoscere, che si mise a fare capriole sul mosaico di tasselli del pavimento: una capriola appresso all’altra, instancabilmente, come un minuscolo eroe circense: «Opplà! Opplà!…» E chissà quando avrebbe smesso se, ad un tratto, non fosse stato centrato in pieno da un raggio luminoso. Inorridì. Era stato scoperto? Giacque disteso, supino. Aveva paura di capire che cosa fosse accaduto: la nonna del piccolo doveva essere entrata di soppiatto, reggendo in mano il lume, per controllare che ogni cosa fosse in ordine. Ora lo avrebbe scorto lì, a terra, e si sarebbe talmente indignata da gettarlo fuori; fuori dalla finestra e dentro al cimitero delle cose inservibili… dove sarebbe rimasto, kaputt, rotto, al cospetto di altri rotti pupazzetti che un tempo furono forti e orgogliosi soldatini partiti per la guerra. E tutto questo mentre il caro, caro pargolo, ignaro di tutto, avrebbe continuato a cullarsi nel sogno.

Si sforzò di sprofondare nell’inerzia assoluta, riconfermato all’incanto dello specchio a pannelli, gli occhi innaturalmente spalancati, due cerchi di rossetto sulle guance e le fiamme dei pensieri congelate sul capo-ovetto. Udiva da una parte il tic-tac, tic-tac dell’orologio e dall’altra il lieve respiro del bambino. Intanto i minuti colavano lentissimi e la sorgente luminosa rimaneva bloccata su di lui. Beh? Non succede niente? Facendosi coraggio, mosse un braccio-moncherino, con prudenza; poi le gambe. Mosse l’altro braccio e, simultaneamente, la testa: ancora, nulla accadde. Si rimise all’impiedi, con sincero stupore. Erse la sommità occhiuta verso il riquadro della finestra. A-ah: ecco da dove veniva quella luce! Una luna piena, tonda, splendeva come un pallido sole nella notte sgombra di nuvole.

Ridacchiò. Che stupido era stato! La luna; era solamente la luna… Quindi ricominciò il suo giro d’esplorazione, con andatura allegra e molleggiata.

 

 

Si spinse fino alla seggiola addossata a una parete e vi si arrampicò su. Finì col mettersi a cavalcioni sulla spalliera. In quei paraggi sembrava però non esserci niente di stimolante. Si accingeva a ridiscendere quando repentinamente, non molto distante, avvertì una vibrazione. Un’altra fantasima? No. Si trattava di qualcosa di concreto e reale, pur se indefinibile… un fremito dell’aria che tradiva la presenza di vita animale.

Tese l’udito e, finalmente, ecco uno zzzz, un debole ronzio disperato. Il ronzio si dilungò in maniera penosa per spegnersi di colpo e poi ricominciare. Un insetto stava invocando aiuto. Ma dove? Dove?

Avvicinò il volto alla presupposta fonte del rumore e la sua fronte sfiorò una ragnatela. Oh, la stanza era piena di ragnatele! Ma vuote, inanimate, simili a reti da pesca stese ad asciugare. Questa però… Se ne ritrasse immediatamente, poiché aveva sentito l’ansimare eccitato del Tessitore in avvicinamento. Impietoso, il Pholcus phalangioides zampettava verso la preda.

Il clown di pezza poté indovinare una breve lotta muovere, facendola ondeggiare, la tela. E, in ultimo, un più debole e breve ronzio, cui seguì un drammatico vacuum acustico.

L’orologio si fermò.

Ancora qualche battito di ciglia ed ecco nuovamente l’ansare malefico del ragno che, tronfio e imbuzzito, riandava via. Quindi, una volta di più, sssilenzio.

Il pupazzetto di stracci era allibito. Nella sua mente si erano susseguite le scene dell’impari duello iniquo, con lo spaventoso finale in cui la mosca, già smembrata, capitolava.

Raramente aveva conosciuto qualcosa di più crudele. Nella natura ci sono esseri che sbranano altri esseri? Se è così, quale fortuna essere nato “cosa”! Oppure doveva aspettarsi anche lui di essere un giorno vittima della brutalità che funge da propulsione al carosello dell’esistenza? Fino a quel momento aveva ignorato che il male potesse essere così raccapricciante, così… No, non c’era aggettivo per definirlo; tuttavia, rimase a cercarlo per ore e ore, senza accorgersi che già l’aurora indorava il cielo, il disco solare saliva piano e il mattino si arricchiva di voci.

 

 

Il fanciullo venne svegliato dalla vecchia. Si stropicciò le palpebre e sbadigliò. Aveva riposato bene, come tutti i monelli, e ora gli toccava prepararsi per andare a scuola. Mise i piedi fuori dal letto e scorse il pupazzetto accasciato sulla sedia. Facendo gli occhiacci, si precipitò ad afferrarlo. Tenne tra le mani quella cosina pieghevole, ulcerata, stramba, osservandola da tutte le prospettive. Dopo prese il coltello che stava sul tavolo e, senza esitare, lo affondò nel ventre tenero come burro. «Jude!» disse. «Jude! Jude! Jude!» Con le forbici allargò impaziente la ferita e guardò. Guardò, guardò. Ma non c’era niente, all’interno del pupazzetto. Rabbioso, scagliò in un angolo la carcassa vuota e si preparò a uscire, per andare ad apprendere i prodromi di scientiam et grammaticam che tanto utili gli sarebbero stati un domani.

«Adolf!» incitò la nonna. «Adolf, sbrigati o farai tardi!»

 

 

Nel suo cantuccio, il ragno sogghignava.