‘Zero Connect’ – un altro stralcio online

Su questo blog abbiamo già pubblicato l’inizio dello “skizoromanzo” Zero Connect.

Ora procediamo oltre, offrendo un altro stralcio dallo stesso libro.

 

[…]  

Serena non lo capì, non mi capì, e, vuoi per i miei improvvisi nervosismi che mi portavano addirittura a latrarle contro senza una vera ragione, vuoi a causa di altri fattori (un’infiammazione al pene, le maldicenze che iniziarono a circondare la mia persona…), decise di abbandonarmi.

Ero disperato. Mia madre mi fu vicina, come sempre; mio padre fu il solito ferro arroventato che a tratti si tramuta in blocco di ghiaccio.

Quando riuscivo a sollevarmi dal mio sepolcro, chiamavo Serena al telefono, ma lei non mi rispondeva, finché i suoi minacciarono di denunciarmi per stalking.

Dopo qualche settimana o mese, pronto a tornare – pur se con enorme ritardo – a calcare i banchi di scuola (ero stato bocciato in quinta liceo, e figurarsi le urla di mio padre: non era la prima volta che perdevo un anno scolastico, avevo ventun anni ed ero quindi un “fuori quota”…!), balzai sul motorino… e mi capitò quel tremendo incidente.

 

 

Il Manuale Psichiatrico Diagnostico e Statistico (DSM) dei disturbi mentali è stato una brillante operazione di copertura in 18 lingue per nascondere le atrocità dei militari e le azioni dei servizi segreti verso i loro bersagli. Se un bersaglio è sotto sorveglianza con la moderna tecnologia via TV, radio, telefono, altoparlanti, laser, microonde, avvelenato con droghe che alterano la mente tramite i condotti dell’aria, introducendo odori familiari che causano mal di testa, nausea e così via, se afferma che i suoi vestiti sono contaminati e così anche il suo cibo e l’acqua del rubinetto, tutte le scuole di medicina insegnano ai loro studenti che quella persona è paranoica, specialmente se crede che dietro a tutto ci siano i servizi segreti. Nessuno ha mai detto alla professione medica che per i servizi segreti queste sono azioni di routine contro i loro bersagli in tutto il mondo. Così, le vittime del controllo mentale sono falsamente considerate mentalmente disturbate e non possono ottenere aiuto, dato che non sono credute e la loro sofferenza è raddoppiata da medici ignoranti. Gli abusi di potere non etici da parte degli individui incaricati della telemetria biomedica sono incomprensibili alla gente normale. Lo scopo del controllo mentale è programmare un individuo per portare a termine una missione di spionaggio o di omicidio perfino contro il suo volere e contro l’istinto di autoconservazione, e controllare il comportamento assoluto e i modelli di pensiero dell’individuo. Il proposito del controllo mentale è di smantellare la memoria, screditare la gente attraverso un comportamento aberrante, farli ammattire o portarli al suicidio o all’omicidio.

  (Rauni Leena Kilde)

 

 

Facendo una piccola ricerca, scopro che la dottoressa Rauni Kilde è deceduta circa un anno fa. Strano: proprio ora che mi ero imbattuto in questa persona stupenda…! Medico finlandese, Rauni Kilde scrisse e conferì su argomenti quali la parapsicologia, l’ufologia e… il mind-control.

“Mind-control” è una bella espressione inglese, per essere più esatti un vocabolo composto, che devo tenermi in mente, giacché ha a che fare con la mia storia personale.

Leggo su internet questa citazione della signora Kilde:

“La morte non esiste e noi non siamo soli nell’universo”.

Riguardo alla prima parte della sua asserzione – La morte non esiste –, difficile digerirla. Se fosse vero, io non avrei bisogno di vivere con queste paure che mi affliggono irrefrenabilmente. Aspirano a farmi fuori. È un dato di fatto. Per questo negli ultimi anni ho immesso numerosi documenti sui social network. E per questo scrivo il presente libro.

Sulla seconda parte – non siamo soli nell’universo –, ebbene: non ho difficoltà a dare credito alla simpatica Rauni. So che lei fu tra gli organizzatori della prima conferenza sugli alieni tenutasi in Finlandia e che pubblicò diversi volumi su rapimenti di umani effettuati dagli alieni, sul mind-control e su vari complotti a vasto raggio. Lei stessa affermò di essere stata rapita dagli extraterrestri e che le sue conoscenze e il suo talento esoterico erano un risultato dei suoi “rapporti” con loro.

Ora, io ignoro che cosa sia successo mentre Rauni Kilde era in mano ai marziani… dovrò leggere altre sue opere, immagino. Certo è che gli alieni da lei incontrati devono appartenere alla razza buona. Gli alieni che circondano me, invece, sono del genere opposto. Esseri maligni, e dico poco. Avete presente i diavoli, sì? Del resto c’è un’interessante teoria in base alla quale le corna dei diavoli non sarebbero altro che le antenne di visitatori extraterrestri…

 

Mi chiamano “lunatico”. Eppure è palese che la forza della luna viene sottovalutata. Molto spesso la gente usa le parole senza filtrarle nella mente, anche se nulla è più importante delle parole.

Sto a osservare Selene da una finestra del manicomio, mentre gli altri “ospiti” dormono: chi profondamente, chi di un sonno agitato. D’altronde, come si può dormire con questo occhio luminoso fisso su di noi? Io non ci riuscirei. E infatti eccomi ben desto e all’erta.

Domattina ho un colloquio col dottor Francini, che dovrà decidere, di concerto con non so quali altri luminari, se tenermi qui o rimettermi in libertà. Dovrò cercare di mostrarmi “equilibrato”, per usare il loro linguaggio. Ma d’altronde… ho davvero voglia di uscire?

 

 “Hey, skizo. Skizo, hey…”

 

Skizo: così mi appellavano, quando incominciai a dar segni di instabilità. Andare per strada era un gran tormento per me: dappertutto trabocchetti. Ma soffrivo anche a causa dei ripetuti sfottò che mi venivano lanciati addosso. Pochi di quelli che prima mi conoscevano mi rimasero fedeli ma, ovvio, non era facile essermi amico: dopo l’incidente col motorino e la seconda bocciatura di fila (a un passo dal diploma!), divenni sempre più intrattabile; per tacere dell’arroganza congenita, che, lo so, lo so, usavo e uso per cercare di dissimulare le mie paure, la mia insicurezza di fondo.

Sia fuori che a casa, sia con sconosciuti che con conoscenti, urlavo e imprecavo a ogni piè sospinto. Il mio disagio era troppo forte, nessuno poteva aiutarmi. O, come puntualizza il dottor Francini nell’analizzare i miei racconti: ero io che non permettevo a nessuno di aiutarmi. Già: pazzia autentica.

La malattia di famiglia, che io chiamo Morbus Portianus in onore di me stesso e di tutti i Porziani che mi hanno preceduto. O dovrei usare il genitivo, e quindi Portianii? Più corretto sarebbe comunque Morbus Magnanotarii, se proprio devo includere ogni singolo elemento della mia tribù, ma va bene anche così. “Morbus Portianus” serve a rammentarmi che son soprattutto io (Porziano, o Porzio) a esser matto (almeno secondo loro); e tuttavia vivo, e pertanto degno di menzione.

 

Il mio cognome lo avete già sentito. Sì, giusto: è lo stesso del famoso “Cervellone di Firenze”, come qualcuno lo soprannominò. Pensate che sia una coincidenza fortuita che io mi chiami come lui? Beh, tanto fortuita non direi: di Adalberto Magnanotaro sono il nipote!

Proprio: discendente diretto del genio che inventò il bigliathon (acceleratore di particelle portatile) e la lampada rombicubottaedra. Giusto, gente: mi riferisco allo stesso spirito brillante che ha rivoluzionato la fisica quantistica enunciando la formula h=mt².v

Quando presi a dar di testa, affrontai un paio di volte mio padre dicendogli che dev’esserci una tara nel nostro bagaglio genetico.

“Finora mi sono sempre vantato di nonno Adalberto, ho fatto pure un video dove parlo di lui come di un genio… Ge-ni-o?” (Risata lacerante, cattiva.) “Mi sa tanto che a me il Cervellone ha mischiato un virus, una tenia dei neuroni, degli strani batteri. Il video domani lo cancello, e…”

E mio padre: “Va bene così, calmati, smetti di nitrire, di scalpitare. Non è niente di grave. Quello era un genio e noi siamo somari. Buona notte e domani è un altro giorno (si spera!)”.

 

Lui non vuol parlare di Adalberto Magnanotaro. È arrabbiato (come hanno scritto anche giornali e riviste e come si legge in più di un libro) per il fatto che il nonno, prima di morire, decise di intestare i proventi del copyright delle sue pubblicazioni (testi scientifici e no, incluso il volume che conteneva l’ormai celebre ‘teoria del moto ciclico dei quanti con scarto pentadimensionale’), insieme a quasi tutti i beni immobili, a un ente culturale o presunto tale. Di questo ente, il Bulblanco, parlerò più avanti.

Delle immense ricchezze che si vociferava avesse posseduto il grande Magnanotaro, a mio padre è toccato solo l’appartamento in cui oggi vive, dove noi viviamo (anch’io; quando non sono internato).

Un appartamento che non è proprio uno schifo ma neppure una reggia.

Nella nostra città vengono ogni tanto a ficcanasare gli avvoltoi del gossip, insieme a uno o due seriosi giornalisti investigativi. Mio padre preferirebbe sparargli a vista; senonché, ciò è vietato dalla legge, e allora lui si limita (quando li sorprende nei nostri paraggi) ad abbaiargli oscenità.

Questi pennaroli però non demordono. Cercano di intervistarci. Mia madre non ha niente da dire anche perché, davvero, non sa niente, e allora si lanciano su di me, che sono ancora più ignaro.

Ovvero: fino al 2001-2002, periodo in cui uscì la “sensazionale notizia”, non avevo saputo né sospettato una cippa. Poi, pian piano, con questa pulce nell’orecchio ho iniziato a indagare per conto mio, a sondare e perlustrare, a chiedere e annusare all’interno della famiglia…

E oggi ne son certo. Non al 100% ma, diciamo, all’80%. La notizia è vera.

Apparentemente nulla di che, non uno scoop. Ma il nome di Adalberto Magnanotaro, famoso in tutto il mondo come “l’Einstein italiano”, ha sempre portato e porterà acqua al mulino della yellow press e dintorni.

Neanche loro, gli uccellacci della stampa e dell’editoria scandalistica, hanno un vero appiglio. Vengono a chiedere proprio a me, che in fondo non c’entro nulla; a me, che, a conti fatti, sono la vittima. Scrivono (anche su internet! E lo dicono in tivù, alla radio…) cose così:

  

Il grande mistero che circonda una delle grandi menti italiane a cavallo del XX e XXI secolo: Magnanotaro.

Suo “nipote” è forse in realtà un suo figlio indesiderato?

 

E il contenuto ha usualmente questo tenore:

 

Tutti tacciono nella famiglia del celebre inventore e fisico teorico oppure danno risposte sconclusionate. Anche Porziano (“Porzio”) Magnanotaro, ufficialmente figlio del figlio dello scienziato, dice poco e, quel poco che dice, non ha né capo né coda. Eppure, giusto lui potrebbe essere l’oggetto della contesa, il risultato di una delle scappate “sentimentali” di cui si rendeva protagonista il cosiddetto “Cervellone di Firenze”.

Il ragazzo, che vive con i genitori (o quelli che lui ritiene tali), potrebbe essere frutto di una relazione sessuale tra Adalberto Magnanotaro e una ballerina di night club. In seguito (in pratica, poco prima di morire), l’eminente scienziato avrebbe costretto il proprio figlio Elio e la sua consorte ad adottare il bambino…

Adalberto Magnanotaro è morto nel 1989 e la ballerina o entraineuse che aveva messo in giro la clamorosa diceria – appunto quella di aver partorito il figlio dallo scienziato – si è resa irreperibile.

 

 

Mio padre tace su queste rivelazioni. Quelle poche volte che io ho insistito, torcendo le mani per la necessità di sapere, lui ha borbottato: “Solo supposizioni” e: “Le consuete balle giornalistiche”.

Come detto, papà davanti ai reporter innalza una cortina di silenzio. In un’unica occasione si è lasciato sfuggire un commento a telecamere accese e taccuini aperti. Un bello sfogo irato, di cui riporto qui le parole:

“Basta, non ne posso più! L’eredità? Andatela a cercare presso gli altri parenti, oppure alla Fondazione Bulblanco”.

Domanda: “Ma… lei da suo padre non ha ricevuto proprio niente?”

“In che lingua ve lo devo dire? In arabo? A me ha lasciato solo ‘sto katz di buco e giù, in cantina, una delle sue portentose lampade (che è ancora incartata; magari avrà un difetto di fabbrica e comunque era uno dei primi campioni e io non posso nemmeno venderla perché oramai non interessa a nessuno) e quel bigliathon o come si chiama, che a me ovviamente non serve perché non ho studiato fisica e comunque a metterlo in moto qui dentro vuol dire rischiare di far saltare in aria il palazzo, forse tutto il quartiere o l’intera Pistoia.” Fece un gesto d’impazienza, scrollandosi. “Ad ogni modo non venite a parlare di mio padre a me. Genio, certo, ma anche uomo poco equilibrato. Io lo ricordo così. Sì, secondo me era matto, d’altronde ho sempre avuto dubbi di essere suo figlio. A-ah, adesso stupite, eh? Spero, con tutto il cuore, che i miei mi abbiano adottato, o che mia madre, al grande Adalberto Magnanotaro, abbia messo le corna! Non voglio essere figlio suo. E ora… via di qui!”

 

Allora pensai: “Ecco un altro che crede, suppone o spera di essere stato preso in adozione!”

E poi:

“Un attimo. Ma… se io per davvero non sono figlio di mio padre, bensì di mio nonno… allora mio padre chi è? Mio fratello?”

Potete immaginare quanto ero confuso.

 Su Amazon. Copertina flessibile, 230 pagg., 11,50 €