‘I Canachi’ – l’inizio

I Canachi è un romanzo – “un romanzo storico”: così recita la dicitura, abbastanza ironicamente – sull’emigrazione italiana in Germania. L’autore (io!) vi racconta fatti in realtà abbastanza triviali a cavallo del periodo del Crollo del Muro (non il muro cinese… non la Grande Muraglia: il Muro di Berlino; dunque, poca cosa!).

Questo l’inizio. Se volete gradire…

 

 

Peter Patti

 

 I CANACHI

 

Un romanzo storico

 

 

   

 

Gli orologiai sono matti agiati

che hanno tempo da sciupare

e non sanno mai

che tempo fa.

 

Marco ha conosciuto milioni di disperati. In Germania, dove risiede fin dal 1986, ha potuto ammirare il volo di alcuni di loro: si buttano giù da grattacieli, rampe, strade sopraelevate, ponti… Il trampolino più frequentato è la Ruhrtalbrücke, o Ponte dei Suicidi. Sessanta metri di altezza, un salto di quattro secondi.

Lui non ha mai avuto preferenze di sorta. Così, in un febbraio particolarmente freddo, dopo aver studiato ben bene la sua polizza vita (o… morte) e averla lasciata in bella mostra sul comodino, si incamminò verso il Buco della Strega, un burrone nel cuore di una tetra foresta. Marco non ha scelto un ponte, dunque. Ma ponte o burrone, che differenza fa? Un volo è un volo è un.

Prima di raggiungere il diabolico Buco, un’ondata di gelo si condensò inopinatamente in un maglio nero: un pugno che gli si schiantò sui denti, spezzandoli. Il sangue sprizzò e formò sulla neve, a caratteri Sütterlin, la parola “Kanaker“. Canaco: offesa maldestra, pugnalata squarciante.

Il colpo gli fece volare via le lentine a contatto, perciò non vide le stelle. Incassò in silenzio, reprimendo le lacrime e ingoiando una sfilza di bestemmie insieme a un grumo vischioso. Poi si allontanò dal luogo dell’aggressione: non più verso il Buco della Strega, ma verso il suo Refugium. Mentre ricalcava le proprie impronte sulla neve, fu tallonato da una striscia di more.

Una volta dentro la sua tana, il suo primo impulso fu di sedersi sulla vecchia stufa e sgelarsi il posteriore. Infilò una sigaretta tra le gengive enfie, ignorando quel po’ po’ di rosso che gli sgorgava dalle labbra (lo avevano marchiato con un anello con svastica), e infine, animato da ottimo spirito, scrisse una lettera ai suoi conoscenti in Italia e altrove. Raccontò di star benone e di amare la vita più che mai. Sincerely, M. Stracciò il contratto dell’assicurazione e, messa la sua roba nella valigia, cavalcò l’alba: da una città all’altra, da una follia a quella successiva.

Dopo pochi giorni si scordò di aver voluto fare l’Icaro dall’orlo di un abisso.

L’anonimo aggressore gli aveva reso, senza volerlo, un bel servigio: lo aveva guarito.

 

 

 

LIBRO PRIMO

 

LE BELLE GIORNATE E LE CROCI

 

 

I

 

Ritornò a Traumfurt dopo un viaggio che gli parve interminabile, da Amburgo giù giù fino al Libero Stato di Baviera. Era assente dalla cittadina da due anni: il periodo più insensato della sua vita.

Sull’intero tragitto, sotto un sole stranamente quasi sempre a fil di piombo, fu scortato da una carovana di Trabant, Lada, Skoda, Wartburg o come altro si chiamavano le automobili costruite nei Paesi oltre l’ex Cortina di Ferro. In mezzo a tanta ferraglia, a tanti residuati del caduto socialismo, la sua ‘duecavalli’ non sfigurava affatto, sembrando, anzi, meno piccola e meno demodé.

Giunse che era ancora chiaro. L’orologio digitale nella Piazza del Mercato segnava le diciannove e quaranta. Poiché si sentiva stanco, non prese immediatamente contatto con Geppo & Giovanni, com’era stato nelle sue intenzioni, ma puntò sull’unico hotel di Traumfurt degno di questo nome.

Il portiere, uno straniero – polacco, arguì lui dall’accento -, trovava difficoltà nel trascrivere le generalità del viaggiatore che, per un caso eccezionale, era sceso all’albergo poco prima di Marco.

«Mayr. Si scrive con l’ipsilon», diceva il cliente.

«Va bene, signor Maier. Ho capito.»

«Mayr. Guardi, ha toppato di nuovo. Non ‘Maier’ né ‘Mayer’: ‘Mayr’. Ma-y-r.»

Il portiere alzò gli occhi dalla pagina mezzo schiccherata e cercò invano aiuto da Marco, che, due passi più indietro, attendeva pazientemente. Infine si arrese con un sospiro. Disse: «Senta, scriva lei stesso». Sottovoce, quasi ad ammettere la propria ignoranza.

E l’uomo di nome Mayr girò il registro verso di sé e scrisse: ‘Mayr’.

Riprendendosi in modo professionale, l’impiegato aggiunse: «Eh, questi nomi sono una croce! Anche con il mio non ve la cavate tanto facilmente, voi tedeschi: Stankynovskjy», si presentò.

Il signor Mayr, che già stava trascinando le sue valigie lungo il corridoio, si volse con lentezza solenne. «Israeliano, prego», precisò.

«Eh?», fece il portiere, spiazzato.

«Non sono tedesco ma israeliano», puntualizzò l’ospite, prima di scomparire nell’ascensore senza nemmeno l’abbozzo di un sorriso.

«E io italiano», annunciò a questo punto Marco, sgomentando ancor di più il portiere. Lo tranquillizzò immediatamente, porgendogli il documento d’identità: «Può copiare il mio nome da qua».

 

 

Al mattino compì un giro per le vie inondate dalla luce di quel luglio radioso. Trattandosi di un giorno feriale, l’agitazione era contenuta, tuttavia Traumfurt pullulava ugualmente di una mirabolante presenza corale. Affatto male per un posto di nemmeno ventimila anime.

Alla prima occhiata non avrebbe saputo dire se la cittadina fosse mutata di tanto rispetto a quando l’aveva lasciata. Architettonicamente presentava lo stesso volto pulito e poco spigoloso che lui le conosceva. Il municipio si ergeva a metà strada tra la chiesa luterana e quella cattolica: la potenza terrena tende le mani alle potenze celesti. Ben distribuiti erano bar notturni, discoteche, caffè e spacci gastronomici greci, iugoslavi e italiani (Marco ricordò di aver letto una volta questo avviso: ‘Il cuoco non c’è. È andato a mangiare’). Riconobbe l’ente sanitario, l’ufficio postale con le aiuole che facevano pensare più a un’insalata che a un giardino, i tetti a spiovente, le finestre sotto i tetti e, poco distante dalla piazza, anzi praticamente a ridosso del centro, il quartiere dei “diversi“, degli “asociali“, dei rifugiati – politici e no – con la viuzza preannunciata dall’enigmatico cartello: ‘Passaggio pedonale sconsigliato – Transito a proprio rischio e pericolo’.

A parte gli inevitabili ritocchi, le inevitabili aggiunte (un bar tutto vetri e ottoni scintillanti e l’immancabile discount sorto alla periferia nord, là dove prima c’erano stati dei graziosi abeti), Traumfurt – sul fiume Traum – conservava l’aspetto ordinato di nucleo urbano efficiente, molto elegante nella sua funzionalità. Ovviamente tanto modernismo era una spina nel fianco per la Baviera tradizionalista e ultraconservatrice.

E la gente era cambiata? Marco non poteva ancora stabilirlo. Ogni tanto alcuni passanti si giravano a guardarlo, attratti dalla velocità moderata della vetturetta. Forse si rammentavano di lui… Ma come poteva sapere se si trattava di persone con le quali aveva avuto a che fare in un paio di occasioni soltanto o di neotraumfurtiani trascinati fin lì dall’esodo che aveva preso avvio all’Est?

Due anni erano trascorsi dal Crollo del Muro. A Traumfurt lui aveva vissuto per due anni e vi mancava da un periodo ugualmente lungo. Nel frattempo si era imbattuto in tante solitudini, in tante storie, e nel mondo si erano svolti avvenimenti a dir poco portentosi al cui confronto la sua odissea personale si sgonfiava miseramente, si smitizzava da sé, vergognosa, riducendosi all’affannarsi episodico e insignificante di una tignola. Che cosa era successo? Beh, innanzitutto l’Europa aveva acquistato in fusi: si era ingrandita, diventando un ideale quadrilatero delimitato dal trentesimo meridiano est e dal quarantesimo ovest, dal parallelo a nord di Murmansk e da quello a sud di Marrakesh. E scusate se è poco.

Due anni: quante cose possono accadere in questa eternità! Marco aveva corso il rischio di vivere la morte delle emozioni: perché ammalato, incattivito, reso inquieto dalle metropoli teutoniche, dapprima venerate, poi abbandonate con un senso di nausea, poi nuovamente venerate, poi ancora neglette… Ce l’aveva fatta in extremis a ritornare nel luogo in cui ogni cosa era iniziata; a decidersi per la chiusura del cerchio, scongiurando il pericolo di trasformarsi in perpetuum mobile.

 

 

Traumfurt era stata la sua prima tappa in Germania: ventiquattro mesi di rude, umile lavoro come lavapiatti, poi come pizzaiolo – il tirocinio di tanti emigrati italiani. Ma era stato anche un tempo di bagordi, di scherzi, ed è singolare che, per quanto in seguito avesse cercato e provato, in nessun altro luogo gli era riuscito di rivivere la collegialità virile e l’amicizia disinteressata conosciute là. Solo una noia gravida di ilarità e discorsi a cavoli di cane in decine di ristoranti disseminati tra le Alpi e il Baltico.

«Marco, lei se ne intende di cucina?».

«Uhm. L’inserzione diceva che cercate un cameriere, no?».

«Già. Ma lei ha lavorato come cuoco e di un cuoco abbiamo bisogno più urgentemente. Pensa di poter svolgere quest’attività da noi?».

Era condannato a vita a stare dietro i fornelli: un ergastolano di pentole e mastelli.

«Il cuoco… Il quoquo! E che ci vuole? In fondo non si tratta che dell’applicazione pratica di elementari processi chimici…».

«Eh?».

«Si devono sottoporre alcune sostanze organiche alle giuste condizioni termostatiche e, usando ossido di idrogeno…». Poiché la mascella del suo aspirante datore di lavoro ricadeva come senza più vita, semplificava: «Voglio dire che cucinare è facile. Tutto quel che occorre sono viveri, acqua e calore. Proviamo a considerare i tegami come provette…».

Subentrava una pausa interrogativa e, secondi dopo, una risata poco persuasa. «Ah, ah. Spiritoso, spiritoso davvero!».

 

 

Eseguì un’inversione a ’U’ sul piazzale antistante una fabbrica di elettrodomestici e ripercorse il cavalcavia che, girando alle spalle della cittadina, fiancheggiava il bosco.

In una regione attaccatissima al proprio folklore e poco propensa a prestare attenzione agli impulsi esterni, Traumfurt costituiva un’eccezione, presentandosi come agglomerato multirazziale e multiculturale. Cinquant’anni prima era stato un insediamento di operai sorto intorno a uno stabilimento che produceva macchine da guerra per Hitler. Dopo la Capitolazione e durante la cosiddetta “denazificazione“, vi arrivarono a frotte gli sfollati, i fuggiaschi, gli sbandati: dalla Prussia e dalla Slesia, dalla Turingia, dai Sudeti… Un esodo immane, paragonabile in qualche modo a quello in corso. Niente di strano, dunque, che vi si parlasse più l’Hochdeutsch che non l’ostico dialetto bavarese.

Da nessun’altra parte Marco si era trovato bene come in quella cittadina, e non solo per motivi linguistici. Ripensando agli amici che presto avrebbe riveduti e a certi episodi vissuti insieme a loro, sorrise internamente. (Stava proprio godendosi l’aspettativa dell’incontro, oltre alla piccola crociera sull’asfalto.) Che follie, allora! Di giorno la fatica, di notte le gozzoviglie. E quando dormivano? Infatti: non dormivano mai.

Sicuro, c’erano stati anche momenti di tranquillità, ugualmente preziosi, in cui lui si era distaccato da Geppo, Giovanni e dagli altri allegroni per tornarsene solo soletto nel suo rifugio: a concedersi un po’ di pace e a rimirare la luna che, declinando piano, più piano, andava a posarsi su qualche isoletta del Pacifico, Rarotonga, Puka Puka, Minami Tori… e a sbuffare fumo contro la monumentale volta del cielo dopo averlo aspirato da una sigaretta di forma conica. Ma indelebile rimaneva soprattutto il ricordo di quelle notti in comitiva. Notti pazze, costellate di gesti e parole epilettoidi e spesso conclusesi all’alba accanto al corpo di una sconosciuta.

Erano “la banda dei cinque“ e solo circostanze contingenti avevano fatto sì che si separassero. La famigerata Banda dei Cinque… O anche: “Quelli del Capri .

Gli “amalfitani“, ossia i dipendenti del ristorante Amalfi, non formavano un drappello omogeneo come il loro. Gli scagnozzi del Da Marcello, poi, non contavano nulla, dato che non li si vedeva quasi mai in giro. Tutti quanti, comunque, erano Itaker. Dispregiativo per italiani. Itaker: solo una delle tante specie di fauna presenti nelle germaniche contrade – pennuti e ungulati, bestie di ogni tipo.

Respirò con voluttà. Il sole, filtrando attraverso le fronde che formavano un’arcata al di sopra della strada, baciava a sprazzi le parti concavo-convesse della ‘duecavalli’. Gli amici… Aveva aspettato a lungo ed era giusto che ora si preparasse spiritualmente, per così dire, all’incontro. Voleva lasciarsi ancora qualche ora di vantaggio o – perché no? – un’intera giornata.

Sicuramente non erano cambiati di molto: Geppo, homo catastrophus, dall’aspetto iperalimentato e in stato di fame perenne; e Giovanni, piccolo grande uomo dai tratti gentileschi e dalla comicità acidula. I due avevano deciso di prendere il Capri mentre lui, Marco, percorreva il Nord della Germania sperimentando il calvario tipico di ogni scrittore-operaio. Quanto ai restanti membri della cricca, Nino e Antonio, si erano l’uno sposato e l’altro ritirato nella vita compassata del paesino di Calabria. Ma, nell’accennare a loro, continuavano a chiamarli con gli affettuosi soprannomi di una volta: “Ninotschka“ e “Boccia“.

Di tutti quanti, finora non aveva avuto che notizie sporadiche. Ogni tanto si erano sentiti al telefono, poiché scrivere non era il forte di quei ragazzi. Ma chi è capace di comunicare, di comunicarsi veramente al telefono? Di infondere simpatia, calore e sentimenti parlando dentro a un freddo aggeggio di ebanite?

Ora transitava davanti a un raggruppamento di croci: un cimitero sul limitare della Terra. Trasalì, avvedendosi di essersi immesso in una stradina sbagliata. Dovette procedere in seconda per almeno mezzo chilometro prima di arrivare a una radura, dove poté rigirare il muso dell’automobile. Bellissima qui la natura, con i suoi boschi, i laghi, i fiumi. Fantastico, immenso paesaggio. Monaco, Berlino e Amburgo – si disse – appartengono a un’altra dimensione.

Monaco! Berlino! Amburgo! Nomi altisonanti. Ma in quell’istante, circondato com’era dallo scenario armonioso e rappacificante, alle grandi città e al loro fascino vero o presunto lui non voleva neanche pensare.

 

 

1987

 

Siamo spossati perché, come al solito, abbiamo dormito quasi niente, eppure rieccoci – più o meno puntuali – ad arrancare sulle scale che conducono al Capri. Nino (il nostro stupendo lustrabicchieri) sembra addirittura più stanco di noi, assomiglia a uno spaventapasseri, ha occhi gonfi e arrossati. Tuttavia è allegro e parla parla parla come una mitragliatrice. Da quando vive con la Ingrid, Ninotschka non perde occasione per narrarci le sue imprese erotiche. E noi, dal canto nostro, gli contiamo le fesserie che abbiamo combinato in discoteca. Come sappiamo, il padrone del locale non arriverà se non poco prima l’orario di apertura, così ne approfittiamo per scolarci diversi caffè ultraforti, lasciando pure che la radio in sala sbraiti.

Siamo ancora in stato comatoso, ma presto ci penserà l’asfissiante ritmo lavorativo a farci svegliare del tutto, unitamente alle urla del kaiserlicchio cui appartiene l’intera baracca.

Il mio posto è in cucina, dove faccio coppia con Giovanni. Io e lo chef de cassius siamo abbastanza affiatati, ma a volte mi tocca stringere i denti e sopportare, sopportare. Non sempre Giovanni è di buon umore. Quando imperversa il lavoro, snocciola soliloqui carichi di risentimento, biliose tirate che durano ore e ore. E ore.

Anche quest’oggi, giacché è chiaramente distrutto, kaputt, lo sento dibattere, mentre saltabecca tra i fornelli e il forno della pizza:

«Certo, c’è il problema dei soldi. Ma non è solo quello. Bisogna lottare anche per conquistarsi un minimo di ossequio, cosa che a casa nostra invece era ovvia e non ci pensavamo nemmeno. Qua chi viene a leccarci le zampe? Chi si toglie il cappello al nostro passaggio? Siamo egoisti, zozzi, ignoranti, opportunisti. E solitari: perché nessuno ci capisce. Ci capiamo solo tra noi Canachi. Poveri e pazzi, ecco quello che siamo! Schiavi alle catene… Anche il più onesto di noi è un ladro. Un ladro, sì, in quanto ruba spazio e lavoro a chi in questa terra ci è nato. Ogni tanto abbiamo un’impennata di orgoglio e ci mettiamo a vaneggiare delle tradizioni e della storia del nostro oh! bel paese, della nobiltà della nostra oh! antica razza. E non ci accorgiamo di essere dei voltagabbana, dei traditori. Mi domandi perché? Perché siamo dei voltagabbana? Perché chi ama il suo Paese ci resta, ecco perché! E mica va a prostituire la sua supposta nobiltà all’estero nella mansione di sciacquino o di scaricatore di mattoni! Eppoi, le balle che spariamo! Quante balle! Ci reinventiamo il passato sapendo di non avere un futuro. No, Marco, non c’è un domani per noi. Siamo persi! Chiamiamo “nostra“ la città in cui viviamo, ma in realtà nulla ci appartiene né mai ci apparterrà. Non possediamo più nenche un ego: quello di cui facciamo mostra è una maschera. Siamo un esercito di Ridolini! Il mondo ci scorre tutt’intorno pieno di suoni e di colori vivaci e la nostra è una vita in bianco e nero. Compiliamo puntualmente la schedina del lotto sognando la libertà, l’emancipazione, l’autonomia… Che coglioni! E mi sorprende che un tipo intelligente come te sia venuto quassù di sua spontanea volontà. Non vorrai fare la mia stessa fine, no?… Ma coraggio, compagno: non tutto è perduto. Tu fai ancora in tempo a tornartene in Italia, prima che la tua famiglia e i tuoi compari si dimentichino di te. Scappa! Mi senti? Ah, ma che siamo? Siamo niente! Ci aggiriamo con il fiato corto e la schiena rotta, il piede equino, le arterie sclerotiche… ognuno un agent provocateur. Sputiamo alle spalle di capireparti, guardiani, becchini, portieri di stabile, edicolai, poliziotti, provando invidia per i loro rampolli alti, biondi e belli. E, come se non bastasse, fumiamo come turchi.» (Accendendosi una sigaretta.) «E CHI CI SALVA?».

 

 

II

 

Parcheggiò in centro, di fronte a un negozio di abbigliamenti, e rimase nell’abitacolo a fumarsi una sigaretta. (E chi ci…?) Si era appena messo a fischiettare Bourrée – una reminiscenza di Bach, ma anche dei Jethro Tull -, quando gli giunse alle orecchie la risata sgargiante di una donna. Allora ripensò a tutte le risate che aveva imparato ad apprezzare lontano da Traumfurt.

Nella cittadina aveva riso molto, ma solo altrove aveva incontrato determinate donne, donne in grado di ridere malgrado tutto e tutti. E aveva potuto constatare che proprio queste donne dal riso spontaneo e a tratti sguaiato sono le più versatili in amore. Ridendo, si allargano come fiori belli grassi.

Il riso che Marco si rievocava era di quel tipo particolare, non offensivo, che esorcizza l’angoscia dell’assurdo e trasmette la voglia di tirare avanti, di continuare a farsi e a fare coraggio. Si totus mundus stultiziat, ci vuole proprio una bella risata grassa, una risata che sembra salire direttamente dalla vagina, per riattivare i nostri sensi sconvolti e far distogliere il nostro dolore dal cataplasma che ci circonda; una risata come di negra, che ci aiuti a riacciuffare la cima del cordone ombelicale spenzolante dal nostro essere in fuga.

Sbuffando fumo, si godeva intensamente il film offertogli dalla memoria, film che a tratti si sovrapponeva, confondendosi, al moderato avvicendarsi di forme e colori di quell’ora e di quel luogo (Werner von Siemens Strasse, angolo Ledererzeile). Si riscoprì pieno di ricordi e visioni. Se avesse permesso a questa pressione dall’interno di liberarsi e trasmutarsi in energia, non avrebbe resistito alla tentazione di mischiarsi ai passanti cantando, correndo e nitrendo come un invasato. Splenetic and rash. Felice e folle sotto il sole e davanti alle vetrine-specchi: come certi tizi sfasati visti ad Amburgo, a Berlino Ovest, a Berlino Est… Sì, doveva assolutamente incontrare gli amici, raccontargli ogni cosa: tutti i posti, tutte le storie. E desiderava anche ascoltarne, di storie. Dichiarare loro: «Non avete mai avuto un confidente migliore. Scaricate pure le vostre preoccupazioni sulle mie povere spalle: sono qua per questo! Oppure chiedetemi quel che volete e farò del mio meglio. Che dite? Volete sapere l’ora? Ecco una domanda irragionevole! Non sapete che ora è, che ora fa?». Si stupiva sempre nel sentirsi chiedere l’ora. Lui non guardava più l’orologio. Ogni istante, ormai, era l’ora della sua vita.

 

 

La sua vita. Un viaggio. Con un inutile diplomino dentro la valigia. Da Palermo («È in provincia di Corleone, vero?») fin nella regione subalpina bavarese, per ricambiare la visita di un Goethe, di un Waiblinger: spiriti che affrontarono mille peripezie per scendere ad ammirare il mondo siciliano. E ricambiarla con un ritardo di oltre duecento anni, conscio di star vivendo in un’epoca in cui persino l’attraversamento a piedi di un deserto e la traversata a nuoto di un oceano non fanno più sensazione.

Aveva ventisette anni, un Werther con il mantello di Faust, ed era ancora on the road.

 

 

Poiché adesso metà del suo volto era illuminata e l’altra metà in ombra, la concretezza della strada dueggiava più apertamente con quella dei ricordi e delle svogliate riflessioni. Così, quando la sua pupilla dilatata registrò l’apparizione di un giovanottino moro in giacca di pelle e con un’enorme radio appoggiata a una spalla, credette di essere confrontato con una caricatura mentale dell’ieri.

Lo smilzo, bruno individuo procedeva ondeggiando, bizzarro ed esotico fin nelle ossa.

«Johnny», si disse Marco in un baleno. Perplesso. Durante la latitanza da Traumfurt, la sua mente non era stata neppure sfiorata dal personaggio in questione. Batté le palpebre una o due volte e ciò bastò perché la versione provinciale di Michael Jackson, copia di copie, sparisse dalla sua visuale. Al suo posto apparve una casalinga di origine palesemente mongola che subito fece coppia con la fatamorgana di una ragazza che da un bel pezzo avrebbe dovuto essere obliata e cancellata.

Richiuse gli occhi, li riaprì. Inopinatamente, il giovanottino dalla pelle olivastra ricomparve con prepotenza, stavolta nell’altro settore ottico, giusto davanti alla pupilla ristretta perché colpita dal sole, e ricomparve in grandezza tale da fargli escludere che si trattasse di un mero richiamo della memoria.

Il fantasma gli sorrideva, il naso schiacciato sul parabrezza.

«Sei proprio… tu?», chiese Marco, smontando.

«Amigo!», esclamò Johnny, passando la radiona portatile in una mano e tendendogli l’altra.

Johnny.

Dietro al sorriso dai denti smaglianti, comune a tanti individui della sua razza, si nascondeva una delle figure più tragiche che Marco avesse mai conosciuto. Johnny era un figlio del pianeta India. Il suo vero nome doveva risultare impronunciabile, perciò si faceva chiamare in quel modo. Essendo sprovvisto di documenti, conduceva in Germania un’esistenza da clandestino, cercando di spacciarsi per… siciliano. In tutti gli anni in cui aveva lavorato in fetide taverne e nelle cucine di vari bordelli, Johnny aveva assorbito non solo buona parte dell’idioma italico, ma anche molte espressioni-base del dialetto di Trinacria. Senonché, lo tradivano l’accento eccessivamente “morbido“, vagamente anglosassone, e la carnagione, che era di una tonalità più scura rispetto a quella che può avere anche il più autentico dei nostri meridionali.

Adesso il ragazzo scopriva la sua mirabile chiostra di denti, esternando una felice incredulità, e ripeteva: «Tu… qui?».

«Come vedi…».

Mentre, di tacito accordo, si recavano in un caffè, Marco si sentì molto alto accanto a lui: quasi della statura di un ufficiale prussiano.

«Anch’io sono arcicontento di rivederti, amigo», disse. «E decisamente sorpreso. Non credevo che ti ci saresti ancorato, a Traumfurt.»

«Ma!», ribatté l’indiano. Aveva suppergiù l’età di Marco, ma dimostrava diciannove, al massimo vent’anni. «È più strano vedere te da queste parti. Perché sei tornato?». Intendeva dire, naturalmente: «Come mai sei tornato?».

Marco rise. «Già, perché? Raccontami di te, piuttosto: hai poi regolarizzato la tua posizione?». E, dato che Johnny evidentemente non capiva, si spiegò meglio: «Il permesso di soggiorno. Lo hai ottenuto?».

«Non ho ottenuto un Katz», gridò Johnny, rabbuiandosi. Intanto si aggrappava alla megaradio, esagerando l’andatura dinoccolata nell’imitazione dell’idolo d’oltreoceano. Era vestito, anche, come l’idolo: interamente in pelle nera. Con quel caldo! «È una fortuna», aggiunse, «che nessuno sa da dove vengo.»

In merito a ciò continuava a farsi illusioni, dunque. Persino un bambino lo avrebbe smascherato, individuando in lui l’extracomunitario.

Non essendo registrato in nessun ufficio, in nessuna anagrafe, Johnny era praticamente una non-entità. Brutto dilemma, il suo: non poteva autodenunciarsi alle autorità crucche perché quelle lo avrebbero ricacciato indietro, e per lui farsi espellere sarebbe equivalso a un mezzo suicidio. In India era bollato come agitatore politico e, a sentirlo parlare, la polizia di laggiù non aspettava che di poterlo sbattere in carcere o peggio: per via di certa propaganda antigovernativa che lui aveva svolto tramite il giornalino del liceo. (Libero Orissa! Abbasso i parassiti di Dehli!) Così, era costretto a vivere in Germania come ombra tra le ombre, il gestus e lhabitus di un eroe canoro delle grandi masse, sempre in attesa del fantomatico passaporto falso promessogli tempo addietro da uno smargiasso proprietario di pizzeria.

«È una fortuna», ripeté Johnny. Quindi tornò a incurvare verso l’alto gli angoli della bocca, mentre spiegava furbescamente: «Ora sto con la Olga. Te la ricordi?».

«Olga… Olga?».

«Un’ungherese naturalizzata. Se mi riesce di sposarla, ottengo automaticamente l’Aufenthalterlaubnis.» Il permesso di soggiorno. «E poi faccio domanda per avere la cittadinanza tedesca.»

«Oh», fece Marco. «Dovrò chiamarti Herr Johnny, allora!».

Marco, Johnny e la risata stridente di Johnny irruppero in un locale situato in cima a un supermercato. Il locale, che si cingeva dell’appellativo ’Cafeteria’, a quell’ora si presentava discretamente affollato: dopo aver fatto le compere, molte persone si concedono una pausa di ristoro – tramezzino o fetta di torta, birra o aranciata. E l’immancabile cappuccino, bevanda “festosa“ dei tedeschi.

Trovato posto sotto un ventilatore dalle pale enormi, i due amici brindarono al loro incontro. E non certo a cappuccini. Johnny, la cui eccitazione era dovuta, almeno in parte, alla marmellata di hascish consumata a colazione, dopo il primo liquore perse il controllo di sé e cominciò a berciare mezzo in italiano e mezzo in inglese. Una fatalità benigna volle che gli occupanti dei tavoli attigui non comprendessero né l’una né l’altra lingua. Un discorso slegato e imbevuto di astio, il suo. Marco lo lasciò sfogare, cercando di non bagnarsi alla pioggia di frasi infarcite di etimi osceni. L’anziana cameriera sempre pronta a servirli, anche se tra mille brontolii. A un “salute“ seguì un “prost“. Quindi un “cheers“. “Santé“ era un omaggio alla Francia e ai francesi, stranamente amati e riveriti in simili occasioni. E “nastrowje“ fu d’uopo, essendo la Russia di grande attualità.

Colto da un eccesso di nostalgia per la remota patria, Johnny iniziò a raccontare: Bourabay, Rourkela, Bhubaneswar. E poi: Kamatkura, Daduth, Bangalore… luoghi mitici, che presumibilmente non aveva visti mai. Il Mahanadi e il Gange; la vegetazione sontuosa e gli edifici sacri, così meravigliosi e opulenti. E, come si era abituati da lui, non un minimo accenno alla sovrappopolazione, o alla fame, o alle guerre intestine che dilaniano il subcontinente indiano.

Non era lui che Marco avrebbe voluto incontrare. Anzi, a questo ragazzo dal triste destino non aveva pensato nemmeno una volta nell’ultimo biennio – si rese nuovamente conto, sbalordito. Ma, trovandosi ora in sua presenza, gli faceva bene il vederlo sfogarsi, dimentico pro tempore di tutti i guai. Sapeva che, quando lo avrebbe lasciato di nuovo solo, Johnny avrebbe cercato nelle droghe, o in una bottiglia di whisky da scolare ad avidi sorsi, l’anestetico per un dolore divenuto monomania.

Per un istante l’indù pareva chetarsi. Subito dopo cercava il radioregistratore sotto la sedia e, trovatolo, lo sistemava tra i bicchieri, per accenderlo a tutto volume. (Who’s bad?) L’istante successivo pretendeva di sfilarsi gli stivaletti da cowboy – lucidi perché nuovi – e di esporli al di sopra di radio e bicchieri.

Marco prese nota delle occhiate sempre più frequenti da parte di altri astanti. La situazione rischiava di degenerare. Specialmente un manipolo di manovali serbi e croati, che venivano a trascorrere nella caffetteria la pausa di mezzogiorno (regolarmente in discordia tra di loro, a rispecchiare il disgregamento in corso in Iugoslavia), gettava sguardi minacciosi. Perciò, con un pretesto, e parlandogli il più dolcemente possibile, convinse l’amico che avrebbero fatto meglio a lasciare il locale. Gli permise finanche di saldare il conto, che l’arcigna cameriera («Facciadicavallo», la soprannominò Johnny) venne a schiaffare in mezzo a loro.

Ora le strade principali erano oltremodo animate. Tutti sfoggiavano l’uniforme degli operai, dei commessi, degli impiegati. Barcollando, Johnny si lamentò per un’improvvisa emicrania («Quel Katz di ventilatore», ipotizzò), tornò ad accendere il soundbooster e prese a raccontare: «Al momento faccio il tuttofare in una bettola bavarese. Lavoro con dei bastardi razzisti. Maledetti schifosi!», indirizzò loro, o ai passanti, difficile dirlo. Marco si vide costretto a levargli di mano l’apparecchio radio, prima che lui – involontariamente, s’intende – lo sfracellasse contro il fianco di qualche traumfurtiano. «Anche gli italiani sono razzisti. No, tu no, Marco. Ma gli altri… Fuck! Fuck a tutti gli italiani, e primi di tutti gli chef.» Si riferiva agli esercenti di pizzerie. «Sfruttatori! Idiots!… Ma se sposo la Olga, mi cerco un impiego normale.»

«Normale?».

«Forse vado alla Siemens.»

«Allora chiudi con la gastronomia?».

Johnny alzò su di lui uno sguardo strabico (il mal di testa, probabilmente). «Mai più metterò piede in un ristorante», giurò, spergiurò. Poi, assumendo un’aria circospetta, chiese: «Tu sei tornato per lavorare con Geppo?».

«Con Geppo e Giovanni, sì», ribadì Marco. «Mi hanno contattato dopo aver preso in mano le sorti del Capri, invitandomi a. Già. Credo che, grazie a loro, celebrerò il mio comeback al vecchio, glorioso Capri.»

«Fuck.»

«Che c’è, amigo?».

Johnny fece una lunga pausa prima di annunciare: «Litigano sempre».

«Vuoi dire, Geppo e Giovanni…?».

«Sì», annuì il siciliano di Puri (città sul Golfo del Bengala). «Cioè», rettificò, «sono le loro girls che litigano.»

«Babsy e Doris?».

«Exactly. Non vanno d’accordo.»

Accidenti. Ecco qualcosa di disdicevole. Soprattutto adesso che la loro gestione era agli inizi, i due compagnoni necessitavano di una perfetta armonia, di una totale intesa di tutte le parti. Di certo i dissapori, le animosità tra le loro fidanzate scombussolavano l’ambiente. Ma, dopo aver brevemente ponderato sulla faccenda, Marco riacquistò il suo ottimismo, vaticinando loro un avvenire roseo. Li conosceva bene: a forza unita, Geppo & Giovanni avrebbero superato ogni avversità.

 Sapeva che gli amici avevano rilevato il ristorante – di cui erano ex dipendenti – soffiando l’affare a un certo Androlli, un trafficone, un intrallazziere privo di scrupoli che sembrava aver messo radici a Traumfurt. Avevano avuto coraggio ed era lieto per loro, come disse anche a Johnny. «Ma poi, te lo immagini un locale come il Capri nelle grinfie dell’Androlli?».

Sfuggitogli il deal, l’intrallazziere, che non aveva la più pallida idea di arte culinaria, aveva ripiegato sull’Amalfi: un postaccio da sempre in svendita e perciò senza una vera reputazione da perdere.

Marco conosceva a puntino il curriculum del signor Androlli. Era un siciliano («Proprio come noi, Johnny», ironizzò, ma senza perfidia) discendente di grandi proprietari terrieri ed emigrato, o costretto a farlo, per motivi oscuri. Dopo un intervallo – altrettanto oscuro – trascorso in Austria, era riuscito ad accumulare una discreta fortuna in Baviera, commerciando in prodotti vinicoli. Fu l’Intendenza di Finanza a fargli chiudere quell’impresa.

In seguito si era impegolato nella vendita di una bilancia dietetica che segnava da uno a due chili in meno del peso reale, per dopo passare alla produzione in proprio di ricotta. Stavolta fu l’Ufficio d’Igiene a interdirgli l’esercizio.

Persona dalle inesauribili risorse, Androlli aveva ripiegato sulla stampa e vendita di cartellini colorati, di quelli che affaristi e privati amano appendere in ufficio o in soggiorno. Marco aveva visto alcuni di quei cartellini. Erano plastificati e recavano scritte in varie lingue: ‘Proibido fumar’, ‘Out to lunch’, ‘Ich komme gleich wieder’, ‘Home sweet home’, ‘Please don’t disturb’, ‘Achtung! Hund!’ ‘My boss is a Neanderthal’ e altre analoghe. Poiché Androlli non conosceva nessun idioma oltre al proprio (anche il suo tedesco era assai impreciso), per la progettazione e la manifattura di quegli articoli aveva ingaggiato un artistucolo di nome Moses. Moses, uno dei tanti “eterni studenti“ di Traumfurt, si teneva a galla prestando il suo ingegno e il suo estro a imprese ed imprenditori tra i più strampalati.

Per quanto possa sembrare improbabile, la trovata dei cartellini diede i suoi frutti. O “fruttarelli”, per usare le parole dello stesso Androlli. Ma, per via di nuove irregolarità fiscali, l’intraprendente affarista aveva perduto la licenza pure per quel commercio. Così, aveva puntato le sue antenne sul settore gastronomico, che è più allettante e… imperscrutabile.

Androlli era un personaggio sgradevole anche nella vita di tutti i giorni. Possedeva i modi viscidi di un camerlengo, palpava tutti e ognuno, aveva un colorito insalubre e, coerentemente al colorito, si piaceva nel ruolo di mettimale. Non passava giorno senza che spargesse maldicenze su questo o quell’altro italiano di Traumfurt e dintorni. Abbigliato costantemente in giacca e cravatta, adorava quando lo chiamavano “signore“; ma molto di più gli sfagiolava il titolo di “Dottore“, di cui si fregiava illecitamente. Beh, nulla d’insolito: Dottore è, per antonomasia, un prenome italico.

Teneva discorsi sfasati, da cui difficilmente si poteva ricavare un senso o trarre qualche illazione. E poi, quel suo distorto bilinguismo: «Signora Frau», «Buona Abend», «Trinka ‘no schnaps», «Senza Problemen»…! Aveva una predilizione per gli ossimori più inverosimili e le sue sentenze abbondavano di pleonasmi, di tautologie solo in parte volute. Diceva, ad esempio: «giovane ragazzo», «pioggia umida», «buio scuro», «correre svelto», «nano piccolino»… Era, insomma, uno di quei tizi che, nel mezzo di una conversazione, sbrottano qualcosa come: «Adesso andiamo a mangiare. Anche i vostri figli». O che appendono all’entrata della bottega un’insegna del genere:

 

 

VENDESI BICICLETTE E AGGIUSTASI ANCHE’.

 

 

In quei giorni, all’entrata dell’Amalfi si poteva ammirare la scritta: ‘Nuova gestione e proprietario nuovo’.

«Sono contento per i nostri due amici», ripeté Marco. «Loro sapranno continuare la buona tradizione del Capri!». Volle tornare ad accertarsi: «Tu dici che le loro ragazze si strappano i capelli?».

«Oh, quelle…», cominciò Johnny. Ma, all’improvviso, il boy indiano fu assalito da un rigurgito di omertà. Smise bruscamente di ballonzolare come supponeva facesse il grande mito della musica pop e si limitò a fissare davanti a sé con l’espressione di chi è caduto in trance.

«Johnny?».

Niente.

«Johnny?».

L’indiano parve finalmente riscuotersi. «Debbo andare», dichiarò. E si riprese il suo soundbooster, che abbracciò strettamente come si fa con un amato pargolo. Aggiunse, en passant: «Ho ancora la mia vecchia stanza. Vieni a trovarmi quando vuoi».

La vecchia stanza: a Marco sembrò di rivedere i calzini a mollo nel lavabo e il filo della biancheria teso tra l’armadio e la finestra.

Annuì, non volendo trattenerlo oltre. «Ciao, Johnny».

«Well, allora… Giao.»

 

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