‘Durandus’ – le prime pagine del romanzo su “Dante”

 Dal romanzo Durandus, di Peter Patti

(in fase di scrittura). L’inizio:

 

BIFOCALE

 

 ‘O frati’, dissi, ‘che per cento milia

perigli siete giunti a l’occidente,

a questa tanto picciola vigilia

 

de‘ nostri sensi ch’è del rimanente

non vogliate negar l’esperienza,

di retro al sol, del mondo sanza gente.

 

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza’.

 

(Dante Alighieri, Inferno XXVI, 112-120)

 

 

 

 

Cosa conta mai il canto del cigno in teatro in

confronto col canto decrescente delle

mosche sulla terra piatta!

 

(Günter Grass, Anni di cane)

 

 

 

 

1 – IL CIACCO

 

 

  Ludovico de’ Ranieri: Manuale del pur volgare; sezione 3 (pagg. 61-62): I GRANDI CRIMINI STILISTICI. Lezione 5: ‘Non scrivere beat!’

 

 

  TESTO SOTTO OSSERVAZIONE:

 

  Erano le quindici e fuori faceva brutto tempo ma nella stanza di Ciacco gravava l’afa, lui sedeva davanti al computer passando in rassegna la sua collezione di pornodagherrotipi,
oh, ma com’è che le camerette di questi ragazzi per benino sanno tutte di stantio!, conchiusi giardini di Armida senza un solo tocco di verde sedi di arcane e licenziose voluttuosità musei in miniatura di
giocattoli e cianfrusaglie ataviche nel cuore di abitazioni fornite di radiatori a volontà… Fuori faceva brutto tempo ma sul monitor susseguivansi le immagini piccantissime, Ciacco con l’occhio sbarrato innanzi
a pistonarsi per buona parte del pomeriggio quando ad un tratto – suppergiù all’apoteosi dello spasso – ebbe sentore di una presenza nel corridoio e allora i capelli gli si rizzarono religiosamente, serrò
le mascelle con uno scatto nervoso e ristette circospetto finché non udì la maniglia girare e, svelto come un lampo, schiacciò un tasto (lo schermo mostrò subitaneamente altri scenari, un cielo
notturno popolato di vascelli fantastici, comete di fuoco, il globo terracqueo visto dall’alto e scosso da terribili esplosioni) mentre con l’altra mano risospingeva gli ammennicoli nel cimmèrio stazzo per volgere
quasi contemporaneamente l’angiolesco viso alla porta, là dove, una frazione di secondo più tardi, comparve sua madre.

  «Beh?» domandò come annoiato.

  «Posso?» domandò altresì l’esperia maman.

  Rivolto a lei più di un quarto che di profilo, Ciacco accusò: «Se puoi? Ma se se‘ già dentro! E senza nemmeno aver bussato». Più
irritato: «Vuoi farmi un trappolone?»

  «Non voglio farti nessun trappolone», perorò lei tranquilla, stringendo gli occhi nella semioscurità dell’ambiente pieno di polvere e di svariatissimi
oggetti; e venne subito al dunque: «E’ stato qui quello strano amico tuo, quell’Allighiero…»

  «Amico mio? Qui siamo al limite e all’illimite!» sbraitò il fascinoso Ciacco battendo
con un pugno sul ripiano del tavolo, pericolosamente vicino alla tastiera del computer. «Lo sai lo sai che non voglio vederlo. No e no!»

  «L’ho avvertito, infatti, che non sei in casa», cinguettò la madre, mantenendo un tono calmo, pacato, un po’ stupita perchè le pareva che
la faccia del figlio fosse stranamente arrossata, dolce mamma col collo grasso sempre sudaticcio e l’andatura da oca, come tutte le genitrici amorevoli di questi oh! bravi ragazzi. «Ha lasciato detto qualcosa»,
proseguì, sorridendo al cocco suo che le altre – tutte! – le invidiavano, «vuol sapere se può venire a trovarti e si aspetta una tua risposta scritta… un biglietto o che so io.»

  «Nì; no! Nì e poi no! No!» insisté Ciacco.

  «Mi è apparso triste e perplesso…»

  «Ho centinaia, migliaia di amici, io!» si imbizzì il cucco. La sua non era un’esagerazione: era veramente amato, ricercato; non c’era festicciuola
a cui lui non venisse invitato, ogni riunione e ogni party si rivelavano vacui e malinconici se Ciacco non rendeva l’onore della sua brillante, simpatica presenza; ed apposta si faceva raro, apposta centellinava le sue
entrate in scena: in tal modo accentuava l’altrui ben volere. «E ora tu mi vieni con l’Allighiero. Ti fai ludibrio di me? Te l’ho detto e te lo ripeto che non lo sopporto non lo sopporto. Tra tutti, proprio
lui, unicamente lui
non mi va giù

  «Una volta, però…» cercò di obiettare pacificamente la mamma, ma il ragazzo non ottemperò, e già la congedava – sì, “una
volta”, una settimana fa forse, ma una settimana è un secolo e niente è mai solido e definitivo, ogni cosa muta facilmente quando si è talmente giovani e sani che anche le stelle si metterebbero a
urlare. Ciacco dunque stava ancora un momentino in attesa dopo che, smuovendo una nuvoletta di particelle più leggere, la porta si fu richiusa, e quindi, martellando su certi bottoni che sapeva lui, fece riapparire
sul monitor il programma che maggiormente lo interessava, solo che, poiché adesso il suo uccello – come egli si avvide, rabbiosamente – era simile a un palloncino sgonfio più che a ogni altra cosa, le immagini
di corpi nudi bruciati sul disco di memoria in momenti di contorsioni incredibili parevano ah! ridicole chimere, improbabili grovigli di membra, l’Eros trasformato in hybris, in dismisura, ma il suo coso stava proprio
giù e solo una fanciulla sparvierata avrebbe potuto, chissà, riportarlo in vita.

  Fuori faceva brutto tempo e Ciacco si sentiva un po’ grullo, si riallacciò il davanti dei calzoni e, per mettere a tacere la delusione, prese a giocare a Star Wars mentre nell’angolo più buio del comodo rifugio il rilievo in ceralacca del bis-bisnonno sulla copertina dell’album di famiglia si scioglieva a poco a poco
a poco a.

 

 

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IL PARERE DEL PUR VOLGARE:

 

  L’autore dell’esempio qui sopra riportato (non ne riferisco il nome non per pietà, ma per disprezzo) ha perpetrato tre dei peggiori peccati stilistici:

 

  -scarsezza di interpunzione

  -originalità fasulla (artificiose iterazioni, larghi giri di parole)

  -eccesso di vocaboli alieni.

 

  Evita di imitare il suo stile, che vuole forse ispirarsi alla scuola di Kerouac! La lettura in chiave critica di questo brano dovrebbe esserti d’insegnamento, distogliendoti
da ogni proposito di rifare il verso a certi scrittori “innovativi” stranieri. Attieniti al ritmo che è proprio della tua lingua! Studia le belle pagine dei classici nostrani, dei Maestri!

 

 

 

—–> REGOLA:

  Costruisci frasi brevi! Non imbottire la prosa di proposizioni secondarie, ma scrivi in maniera chiara e concreta! Non risospingere gli ammennicoli con oh! angiolesco volto
sollevando a poco a poco nuvole di eccetera, bensì controlla il tuo gesto creativo!

  Lo sviluppo di più pensieri tra di essi concatenati può facilmente condurre al caos lessicale se non si intervalla la scrittura, con frequenza ragionevole,
con punti e – a seconda delle necessità – con punti e virgola (vedi
Gli indifferenti, di Moravia); stai tuttavia attento a non cadere nel caso opposto, producendo una prosa asmatica o “a singhiozzo”, tipica di tanti scrittori di Oltreoceano.

 

 

—–> ESERCIZIO:

  Ricomponi questo malriuscito pezzo narrativo conformemente ai dettami dell’italico ortodosso, sostituendo i termini stranieri con i corrispettivi nella nostra lingua e
tralasciando di riportare le metafore più sfacciatamente ad effetto.

 

 

 

 

 


2
– DURANTE

 

 

 

 

I

 

 

  Sedeva rigido accanto alla finestra, una marionetta con le mani incrociate sul grembo, e guardava fuori, nel tendaggio buzzo, crespo. Al di sopra dell’umido quartiere
si allargava la nebbiolina di quella giornata preautunnale, coprendo tutto quanto si trovava oltre le mura di San Gaggio.

  Ottembre. Stava per iniziare il Grande Grigio.

  Chiuse gli occhi e sognò di aprirli e poi di alzarsi. Li aprì e poi si alzò. Le mani gli tremavano, le gambe lo reggevano a malapena. La sera prima
era andato a letto con una fitta capigliatura corta e un viso dai tratti regolari, ma guardandosi allo specchio quella mattina aveva scoperto di avere capelli lunghi e radi, mascelle forti e naso aquilino. Inoltre, alcune
rughe gli erano apparse sulla fronte e intorno agli occhi tondi, e un colore giallastro si era diffuso sulle sue guance e sulle membra.

  L’orecchio era percosso da grida terribili: risonanza di vita domestica proveniente dalle altre abitazioni dello stabile, un brusio di folla che le pareti di cemento
compresso amplificavano in polidia cacofonica. Erano loro, le sue migliaia di vicini di casa, a separarlo dal Sogno, dall’angelo-beatrice, e ad abbrutirlo. Brutti loro stessi – mostri, spauracchi, creature orrende -, ma
solo se osservati da presso. Se si tappava le orecchie e non si soffermava a guardarli, poteva (imitando l’Enea virgiliano) ritenerli inesistenti.

  Andò alla radio e girò la manopola, fintantoché non trovò un’emittente che trasmetteva musica. Quindi tornò a guardare oltre i vetri.
Era da poco sceso il crepuscolo e l’acquerugiola aveva smesso di cadere. Da tutte le parti risuonavano fanfare rosseggianti. Il verde, dove c’era, si tramutò in sazia porpora, assunse tonalità tra l’arancione
e il rosa, e l’agitazione di quell’ora si impastò con il richiamo delle lontananze.

 Mentre ascoltava Io vo’ bene a chi vol bene a me del Ghilardello, su testo di Nicolò Soldanieri, afferrò la bottiglia di mulso e se ne versò una dose abbondante, che tracannò in un unico sorso. Una smorfia gli raggrinzì la
faccia, e gli sovvennero le parole rivoltegli due giorni prima dal tavernaro:

  «Quest’annata non è stata generosa con noi. Le botti sono piene, certo, ma di che? Scorregge acidule, succhi amari. Tuttavia non c’è da stupirsi.
Pensiamo a quel che è stato l’autunno scorso: poco sole e troppa pioggia, l’uvaggio è andato in marcio…»

  Vide due giovanotti in jeans e maglietta, i capelli impomatati, uscire dal portone dell’edificio di fronte e avviarsi in fretta, parlando animatamente tra di loro. Il
rione popolare accendeva le sue luci ad una ad una, ma, se alzava lo sguardo fino al quinto piano, Durante non vedeva nessun lume filtrare attraverso le serrande semichiuse di una certa abitazione… dell’abitazione
di
lei.

  «Non è ancora il momento», mormorò. Andò alla credenza. I movimenti che compiva erano quelli di un uomo meccanico. E non perché
si sentisse indolenzito o di malumore. L’indolenzimento e il malumore sono segni solitamente riscontrabili in chi è invecchiato, mentre Durante non era vecchio: aveva solo vent’anni. Non che fosse felice,
comunque: non ci sono persone felici, ci sono persone che soffrono meno di altre. Soltanto la milza premeva un tantino.

  Mangiucchiando un pezzo di formaggio irrancidito, osservò, ancora, lo slargo, che tornava a popolarsi. Immaginò di scocciare la lisa giacchetta blu dall’omino
di legno, lasciarsi alle spalle la sua celletta d’api e ritrovarsi in breve fuori, per via.

  La ragazzaglia sciamante sui marciapiedi lo avrebbe avvolto in un attimo. Lui però avrebbe evitato di soffermarsi con chicchissia; sarebbe rimasto celato nel primo
fiore d’ombra, qualche minuto in attesa, scrutando annoiato i suoi coetanei. Provava sgomento per loro, quadrilustri che ammazzano il tempo a chiacchierare di sesso da fantascienza o dell’ultimo
show di un noto attore comico e che prendono parte a spedizioni di gruppo in case di tolleranza. Si considerava completamente diverso da loro. Lui credeva nei sentimenti, nell’amore,
infine. E amava l’Arte. Faceva pure dell’arte, sebbene la sua produzione si limitasse a rimate invettive contro la gente nova e i sùbiti guadagni: forse la sua maniera personale di scaricare un sovrappeso di
acrimonia comune a tutti. (L’Arte, sì… e la numerosa corrispondenza col padre: all’incirca ogni lettera era una richiesta di denaro.) (L’ideale amore, già… e lo spasmo di una voglia implacabile,
stordente. Una troia che arrovesciava la testa, ridendo…)

  Vent’anni. “E ho già perduto così tanto. Dovrei andarmene? Dovrei tornare?… Lungi dal dormire, rifletto spesso, io, nello studiolo con la tenda
storta alla finestra. Sulla stessa seggiola dove già prese posto lei.
Lei: Petra. Io, sì, veglio. Che la luna mi sia testimone: non solo con il cuore la amo, ma con parole, occhi e corna!”

  Sete d’amore e fame di soldi: i due poli della sua vita.

 

 

 

 

II

 

 

  Con la fantasia si vide attraversare la piccola folla di ragazzotti che si portavano ripetutamente la mano alla patta, celiavano incomprensibilmente tra rutti e peti e
gareggiavano a chi sputa più lontano. Ostentando una tranquilla indifferenza per non attirare il loro interesse, l’ectoplasma di Durante o Dante di Alleghiero (o di Allighiero, o degli Alighieri), più
audace e più bello del Durante reale, si infila nell’entrata dirimpetto e prende a salire con circospezione le scale.

  Per fortuna, sui pianerottoli la luce non è stata ancora accesa: nessuno lo incrocia, nessuno lo riconosce. Una volta raggiunto il quinto piano, ha il fiatone.
Poggia l’orecchio contro la porta di Petra: all’interno, il vibrante ticchettio di un passo femminile. Certamente la ragazza è sola e sta sbrigando le faccende domestiche. Durante preme il campanello e aspetta,
trepidante.

  «Oh, tu!» esclama lei, sorpresa.

  «Scusami l’ardire!» esordisce lui. «Dovevo vederti, capisci? Non mandarmi via! Non sempre sono così pieno di baldanza, pietra mia, mia gemma.
Anzi, a volte sono proprio un fellone patentato…»

  Mai è stato tanto sincero. (E infatti riesce ad esserlo solo nella fantasia.) «Un fellone patentato…» La sua appartenenza a una compagnia di ventura
ha fatto di lui un soldato esperto; esperto nel senso che, in tante battaglie, se n’è rimasto accucciato dietro a un cespuglio con le braghe calate. Tali cruente
defecationes duravano ore, e cessavano solamente se era il suo partito a vincere. In quel caso era sbucato fuori, aveva affondato la spada nel cadavere di un nemico e, mostrando
ai compagni la lama insanguinata, si era riassociato a loro.

  «Oh, tu!» ripete lei, con perplessa contentezza. Al che l‘Alagherii (o la sua copia immaginaria) le confessa, in una logorrea incontenibile, affascinante,
gaudiosa, tutta la sua passione. E poi? Poi, nulla. Cioè: nell’immaginazione accade di tutto. Ecco che adesso la bacia, la ribacia più a lungo tre e quattro volte. Alcuni sapienti morsettini scatenano i desideri
della pulzella. Poiché il petto ora le si stringe, lei vuole metterlo al più presto in libertà, insieme alla speranza del piacere. Guida la mano di lui: deve insegnargli a sciogliere le stringhe del corsetto,
mentre il giovane, i baci con i baci ricoprendo, la di lei mano conduce al termometro incandescente del suo affetto. Ancora qualche bottone e qualche laccio per le dita di Durante, un nodo ancora, e infine quel seno teso e
sodo, saltellante bicefalo, negli occhi lo occhieggia. Si butta sui preziosi frutti, ruzzone li tasta, esperto li soppesa, con labbra ingorde li gusta e li massaggia. Li inumidisce con la sua irruenza…

  Cosa non può succedere nel pensiero! Ma nella più lucida realtà l’atto dell’amore è uguale a una tortura (la troia rise della sua incapacità)
e assume le sembianze di un’operazione chirurgica. Il poeta, difatti, non fa l’amore che con se stesso. Gode dell’eccitazione, dell’aspettativa, e rifugge la soddisfazione.

  «Oh, tu!»

  Adesso il lume ardeva amichevolmente, ma il dolore tornò a rinnovarsi sotto forma di un brivido che sembrava salire dall’anima.

  Il giorno va. E cosa sussurri tu, fredda oscurità?

  Il vocio di alcuni giovinastri lo fece sussultare. Si scoprì con il naso schiacciato contro il vetro e gli occhi chiusi. Mandò fuori l’aria che aveva trattenuta
nei polmoni e, salendo sul patibolo consueto della sera, tornò alla sua bevanda di scarsa qualità. Ancora un sorso, l’ultimo…

  «La spremuta d’uva di quest’anno non è certo l’ideale per scacciare noia e mortificazione, potare i giardini e spazzare le strade», gli
aveva confidato il taverniere. «Più a nord, però, è ancora peggio. Da lì non giungono che lamenti, urla, pianti. La loro vendemmia è terrificante rispetto alla nostra. Se trangugi il loro,
di vino, è come se uno sciame di vespe infierisca contro la tua gola. Un liquido da suggere con i lestofanti, non con i compagnoni. Già dopo un bicchiere la pancia ti si gonfia, dal buco di dietro ti esce un getto
di vapore e ti ritrovi a volare in strada, sibilando. Anche con il nostro, ahinoi, possiamo sciogliere il granito, è vero. Mentre l’anno passato… l’anno passato, ricordate?» L’oste si era girato
verso gli altri astanti. «Un autentico elisir: lieve e gentile come latte materno. E, se solo una goccettina cadeva sul tavolo, nessuno era tanto signore da finger nulla. Si adoperava la lingua, chinandocisi a recuperare
quella goccettina: perché niente andasse sprecato».

  Un sorsettino ancora. E, mezz’ora più tardi, ecco Durante sbavarsi per la contentezza: perché sta per addormentarsi, ed è come se il sonno non servisse
ad altro che ad equilibrare il trauma della nascita.

 

 

 

 

III

 

 

  Il treno entrò nella stazione di Schifanoja. Uno dei tanti. Non ne scese nessuno di sua conoscenza. In effetti, lui non aspettava nessuno: si era recato fin lì
soltanto per bere da una delle fontanelle, la cui acqua, pur se sprigionante in un sottile e debole filo argentato, era alquanto fresca. Nella sua passeggiata per le vie miracolosamente inondate di sole, la gola gli si era
seccata.

  Era uscito dalla sua tana per andare a trovare Ciacco, ma quegli pareva essersi eclissato con un “arrivederci a mai più”. E anche l’amico Nissa non
era in casa. A costui la cocuzza gli sbatteva sempre altrove: in qualche convegno teologico o alla partita del pallone. (Nissa abbinava i principi cristiani a un gioco barbaresco come quello.) E vabbe’. Si era dunque avventurato
da solo verso il centro, a passi lenti, capelli lunghi e rasatura fresca, con la solita andatura sciolta che risultava un po’ effeminata. Un uomo di spirito, ma anche un commediante. Le sue mani, pulite e fini come quelle
di una donna, testimoniavano della distanza intercorrente tra lui e i bifolchi. Dentro alla sua testa di mattoide, montata al di sopra dell’esile collo che il colletto aperto esponeva alle intemperie e il fazzoletto di
seta proteggeva, dietro alla sua fronte prospiciente, su cui spiovevano le ciocche ribelli della definitiva autostilizzazione, il termine “bifolchi” calzava a pennello a coloro che erano dediti ad attività
estranee alla cultura dei libri o al pensare sofisticato. Ad ogni modo, non tutti i bifolchi erano bifolchi, così come non lo erano necessariamente tutti i mercanti, i ciompi e gli straccioni. La differenza era stabilita
dal sorriso, dallo sguardo, certamente dalla gentilezza d’animo. Ad affascinare Durante erano principalmente i Rifiutati, gli originaloni, gli alieni per forza di cose.

  Presso Campo di Marte vide un barbone aggirarsi tra le giostre, sedersi, togliersi le scarpe e massaggiarsi i prodigiosi piedi, ignaro dei commenti dei passanti. Lo riconobbe
immediatamente: era il “Socrate impazzito” di Schifanoja. Simile a Diogene di Sinope, ma tanto povero da non possedere nemmeno una lanterna per “cercar l’uomo”, questo vecchio dalla barba e i capelli
bianchi incolti si aggirava solitamente per le vie storiche col suo sacco pieno di sogni sognati in lidi remoti. Forse, di “Socrate impazzito” a Schifanoja ve n’era più di uno. Difatti, quel giorno Durante
arrivò a scorgerne un altro, che stava costruendosi un riparo con pezzi di cartone, non lontano dall’Isolotto. Tutti questi barboni avevano sul volto un’espressione saggia e tranquilla ed erano sempre ben
disposti – meglio se allettati da qualche quattrino – a conversare su Dio e le cose del mondo. Ed era proprio per gustare un po’ di questa saggezza che lui si metteva a seguirli, a seguire ogni traccia di diversità,
pur labile che fosse. Lo faceva ad ogni modo con una certa cautela, in quanto “solo i cauti vedranno l’alba di un nuovo Anno Mille”.

  Nella sua recherche, aveva perfino intervistato indovini e chiaroveggenti… a volte capita che queste persone
riescano per davvero a raccogliere informazioni, forse dall’Aldilà… Naturalmente, tale sua “investigazione” non era che una maniera per disfogare la tristizia: alla fin fine, ognuno ha da scegliere la propria, di verità,
e a un povero artista non rimane che caracollare appresso alla navicella del proprio ingegno.

  Si abbassò sulla fontanella e bevve a lungo (in fondo l’acqua che cosa è, se non vino molto, molto annacquato?). Dopo, asciugatasi la bocca con il fazzoletto,
occhieggiò intorno: tanti correvano sulla piattaforma, si urtavano tra di loro e chiamavano ad alta voce i parenti e gli amici che partivano o arrivavano. I passeggeri scesi dal treno e le persone rimaste ad aspettare
facevano una gran confusione nel cercarsi. Era tutta gente con un posticino nel mondo, con un luogo dove andare e stare, con un compito ben preciso da svolgere. Individui dall’aria sicura, lavoratori e dinamici artigiani,
così come mercanti di fuorvia (arabi e normanni, qualche indiano). Nel piazzale antistante la stazione, erano esposte le merci più svariate. «
Yalla! Yalla!» urlavano i venditori. Durante notò tra l’altro delle robuste mulatte in offerta speciale, nonché accattivanti veneri nere. Ma passò
oltre senza degnarle di una vera occhiata.

  L’eccentricità è una maschera; il comportamento indifferente oppure aggressivo, comunque “antisociale”, è una parafrasi della moralità.
Durante detto Dante ostentava l’elitaria fierezza degli individualisti privilegiati, degli accademici, dei liberali, dei progressisti, un orrore distaccato a mò di aureola – quel tipo di distacco che sempre si trascina
appresso una scia di scherno iroso. Ovviamente, neppure lui era completamente sordo alle sirene di Ulisse, agli allettanti richiami del consumo a tutti i costi: slèccati il gelatone, màngiati la pizzettona, sùcchiati
il caffeuccio!… Clisteri laudanizzati rappresentano evidentemente l’unica alternativa a uno stoico rifiuto.

  Arterie di vetrine. Al piano nobile di un supermercato, i manichini – androgini, ma conciati a guisa di creature femminili – costituiscono una strana decorazione: rivolti
verso l’esterno in pose contorte, disperate, danno l’impressione di volersi involare, di voler fuggire dalla loro prigione dorata.

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  La struttura del cosmo schifanojco era sostenuta da un reticolato di trecentoventi banche che assicuravano alle svariate imprese una solida copertura. Il commercio e il
lavoro della città sollevavano una vasta eco. E i sottotoni sapevano d’amaro. L’immigrazione aveva raggiunto livelli impressionanti. Schifanoja era un vortice di facce, ricchezza e miseria, oziosi ludi e fame
atroce, tempi di produzione e tempo perso.

  Continuavano a ergersi sobborghi, periferie di periferie… Ecco che cosa aveva generato la storia fino a quel punto: un gigante di aberrante consistenza, un veglio immane
che versa lacrime al di sopra di un sinistro sogghigno. La testa del gigante è d’oro come l’Età più felice della Terra, braccia e petto sono d’argento, di rame il ventre, d’acciaio Inox
le gambe, il piede destro di terracotta… E questa figura immensa fa acqua da tutte le parti, ogni sua fessura secreta un secreto, e le sulfuree lacrime ingrossano i fiumi infernali.

  Nella fucina di Vulcano si agitano spiriti che sputano fiamme di odio. Sull’incudine strilla il dolore: scintille fino al soffitto. Occhi d’insonnia in ovali fuligginosi.
Scricchiolano i ferri stridono.

  Ad un certo punto (potremmo dire: trascinato dalla sensualità ovunque latente), Durante di Alighiero degli Alighieri si mise a seguire, al pari di uno dei gonzi da
lui esecrati, un’anonima gamurrina. La ragazza non avrà avuto più di quattordici o quindici anni. Sulla scia dell’odalisca in formato ridotto, sviluppò fantasie piuttosto sconce, che gli aprirono
la strada tra la calca di picciotti strappaborse, lanciasassi da cavalcavia e violentatori bambinucci. Qua e là, sostava per celarsi dietro a colonnati e dentro androni, come un agente segreto in sedicesimo. Finì
per trovarsi di fronte alla porta di ferro di una toletta per dame.

  Il luogo non era centralissimo, eppure pullulava di gente. “Tutta quest’umanità e tutte queste recinzioni”, si disse. “Dove mai potrebbero accamparsi
degli zingari?” Gironzolò attorno, finse di leggere un manifesto a cura dell’Associazione Nazionale Reduci d’Affrica e, nel frattempo, non smetteva di tener d’occhio l’entrata del gabinetto. La
ragazzina ci metteva tempo.

  Con suo stupore, un baldo giovinetto sbucò dall’angolo più vicino e, proprio come la fanciulla, scivolò oltre la porta metallica. «A-ah»,
fece Durante, Durantus, Durando, mentre avvertiva vampate di calore montargli al volto.

(…)

 

 Dante attualissimo ancora nel MMXXI!

 

 

 

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