Le notti di Galilei

Peter Patti

Le notti di Galilei

 

 

 

1.



Un quanto d’uomo arrotondato per difetto,
lasciatosi dietro il cartoccio embrionale
insieme al problema degli anni e al letto,
sistema uno sgabello nell’abbaino, vi sale;

torce il collo in un fraseggio di astri.

Rapportato al mio amico Giampiero:
la pancia la barba il melone,
i fruttidimare, un tuorlo di pensiero.
Lui e l’altro, etruschi bonaccioni.

Giampa direbbe: “Miga era umbro, guello!”,
e flamberebbe scampi alla diavola
nel suo locale-bordello,
dove tra i clienti s’incavola la Babsy.

“Et voilà!”: e la fiamma del bigbang.

Tirate le coordinate, sparse le carte,
rimane da stabilire la funambolisi
del caso: Marte esisteva già allora
o fu poi lì scaracchiato da una crisi

di papa o re stellestrisce?

Copricapo… Cornucopia… Copernico!
Questo il nome – pių di un nome! – che a noi
da segnalibro-segnastoria funge, al film
della Vernunft il titolo impresta,
come l’ombra di Faust ai muri ci lega
e fa, di forfora, maggiorana di sapienza.
Il vero spazionauta non abbandona il suo posto
sullo sgabello! Sospeso dunque a metà
per sottrarsi al danger dell’acquitrinio,
strizza gli occhi per meglio acciuffare
tutto, ed alle sciarade di cervelli ibiemme

incasella risposte cortocircuitanti.

Fornisce Sagredo fida compagnia,
gennaio diciassette, milleseicentodieci:
le quattro lune di Giove a sinistra
si stagliano… e poi sono a destra!
CREARE SPAZIO NELLO SPAZIO.
Contro Tolomeus, il nuovo Disegno. Aum.

 

 


2.



Il reggae dell’universo interessa i mercanti
non tanto, ancora, per monetizzare le Cose Nove,
ma per espandere il proprio prestigio sotto
l’egida della Repubblica. Venezia, lieta, danza
ai piedi del palco – sgabello delle autorità? –
imbastito tra rumori di coriandoli. Cabaret.

E il nostro uomo sorride sunshines. S’inchina
ai fans, sta col doge come con un amicone
e, mentre vengono fatte ciceroniane parlate,
gioca con l’astrolabio così, svogliatamente:
in realtà curando la propria image
mentre pensa al tacchino e alla cervogia.

Viene infin l’ora; e da sotto le sottane,
non senza un colpo fiero di sopracciglio,
tira fuori il giocattolo, spiega all’incirca,
passa all’ala (come nel gioco della palla
a Firenze si dice) e si fa bue nell’attesa.

Guardali, i Signori: afferrano il tubo
come per strozzarlo e ora l’una lente
(“No, non così… Dall’opposta parte, prego!”),
ora l’altra, con la pupilla sfiorano;
puntano l’oggetto verso la Provincia d’Est,
tentennano tremando, chiedono muti
(“L’altro occhio… chiudetelo, Messer”);
infine come bimbi strillano lieti:
“La Cala… i monti!… Il tizio non mente!”
e scuotono dell’inventor la mano grassoccia.
Esultanza della folla; librano gli checks.
E non un solo sospetto che l’arnese
per vedere lontano sia il furto di uno scienziato
al carnevale olandese, alla trovata anonima
di una manipolazione della tecnica spinoziana.

Ora ha il nostro eroe il suo tacchino,
gli asparagi e la zuppa di sedano,
crema di funghi e prelibato vino.
Altri nobili in dono gli menano

un nuovo sgabello; di velluto de’ Medici.

 

 


3.

 

Toscana, ti saluto! Fasti imperiali,
un po’ di trucchi di piazza accaparrati
dai santoni delle formule dottrinali,
i proles beoni ed i pittori affamati.
Vedi, Giampie’: quasi la tua Gubbio.

Qui nessuno è afono, e Lorenzetto
gioca nel cortile con il nostro mondo
– ora non più uno sgraziato dischetto,
bensì un cocomero -, che il Maestro fecundus

ipotizza addirittura periferico. Aum.

Suvvia! Al diavolo il latinorum – ed al clero -,
e tuttavia MEA REQVIES, giusto appellativo
di questa dimora dove il vero è più vero
e l’horror vacui l’appetito aggressivo

dei padroni dell’Eliseo.

 

 



4.



Allora? Lo stato di cose effettivo?
Sì, ma con prudenza. Iddio ha mani
a forma di tenaglia e sotto il saio cela
un sùbitofuoco marca Auri sacra fames.
Vuoti la credenza? Prendi il lassativo:
quello di Urbano e dei suoi cani.
A Cosmo, solo sottovoce l’esempio della mela-
Terra e dell’imperativa Arancia delle trame
armoniche (con mandarini, clementine
e altri agrumi piccolofrutto: suns).

La figlia babbea disturba qua e là,
i Discorsi tartagliano sul desco nudo
tra discorsi di panni e di amori.
Solo ripaga il giorno nel suo mezzo,
quando riversano le pentole le magie
scovate dai simplicis nel loro marsupio;
e sul serio contenta allora l’esistenza
con un remis col mitico Mida: si gode papà
un lungo menù di oro umano – cotto o crudo -,
aiutato dal falerno degli allegri cori…
ecco la fagiolata (con pancetta e cipolla)
e la costata di manzo in crema di sardelle,
e il gulasch che uccide i vermi ladroni,
e il cocktail di gamberi in Bolla papale;
qui gli gnocchi nella broda libresca,
là la macedonia di occamismi reintegrati;
e l’insalata indiana; e manna di Sicilia.

 

 



5.



Finalmente, l’alabastro della natura,
alle calende dell’èra presente, a nanna
caccia gli altri: l’ora di Sheherezade,
di Galilei nostromo dell’immenso. Sssst.
Lascia cantare i corpi celesti, con aghi
di poesia variamente appuntati – per me! –
al cavalletto della finestra.

Chi è l’arringatore e chi l’arringato?
Alligatore! Pellevestito rospo d’un ometto!
Il traumaturgo della Cristianità, sei tu!
Esorcizzi cavilli rimirando gli alti pastelli.
In ogni stagione, se è sereno, dalle corvine
prospettive del cilindro di Einstein
cacci fuori una galassia, un buco di ioni.
Affondando in cascavallo la cordigliera delle gengive,
strapazzi gli occhi contro le pitture divine.

Solo, solo e contento, in fondo al pozzodiluce.
Fame di pancia, fame di testa. Qualche alloro.
Ma non per questo le torricase della tua città
si stagliano più dritte all’orizzonte.
Cosa importa qual è il tuo ruolo, di giorno?
Bestia d’ufficio o sottobanchista,
raffinato oste o macdonald nostrano,
è l’oscurità il tuo elemento… il regno tuo.
Tramutato, dannato a magomerlino. In ristagno
in un cosmo che muòvisi senza ritegno.
Ma ti muovi anche tu… come tutte le cose ferme.

E forse un viaggio a media distanza,
col biglietto di ritorno e provviste sicuri,
accenderebbe altre stelle, altre pagine di libri.
Forse, il paesaggio di Castiglia,
o l’alito cantarino di un cortile familiare
scioglierebbe l’angustia suppurata in polypum.
Noi siamo, indubbiamente: la zazzera che cresce
e la fiaschetta a tracollo; certo non sempre stantii,
siamo: camiciacalzoni scozzesi, le calascionate
e i lumi rivisitati (gli orpelli
dell’eterna sintesi – noi sintesi, noi non eterni -).
Stupidi nel nostro orgoglio-cavaldonato,
clamorosi nel mostrare briciole di compensazione,
accorti nello spolverare famigli e penati.
E questo, questo è il nostro mondo:
da noi imporporato imperlato,
ad inferno di Bosch carrattrezzato:
sogno tattile di fiumi di fiele;
ed ogni amata arrangiata a stella bossanova…
‘Lasciate ogni speranza, voi che uscite’.

 

 


6.



Bisogna fingere che non sia sabato notte;
ignorare i rombi dalla strada. Oppure, ancora,
aspettare che dormino tutti, in lotta
con gli incubi o con i veleni anfetaminici. Un’ora,

è lungo il mio tempo.

Stacco la corrente – che nessuno mi microfoni! –
e lascio sola la compagna sul letto – invertito?
Appresto uno sgabello, guardo nella lente:
Urano e saturno sono in linea con Schifanoja,
la Coda dello Scorpione mi solletica il naso.

“Galileo” sussurra Venus, “non dormi ancora?”

Non dormo ancora, eppur dormo sempre!
Sono l’appendice ghiresca della laguna della Civiltà;
e so bene quanto è vero che i peccati di gola
mi spinsero al sonnambulismo cosciente
del compravendita nel Leviatano,
tra tartarughe calamari granchi
e grosse libellule che ronzano basse.
Professore! I miei colleghi: predatori,
mezze scimmie e cavalli a cinque zampe.

È l’èra del gesso, il tardo Terziario.
Ed io l’unica bestia che sa di sognare.
Queste ensembles di cemento, queste auto:
proiezioni all’incontrario del mio cannocchiale,
i bubboni di una peste che puntualmente ritorna.
Un giorno saremo di casa nella Via Lattea
e non sapremo tuttavia ancora deciderci
tra la pasqua di Xerxes e l’ostia Christi.
Un’ora separa Brooklyn dal Titicaca-Sea,
Socrate da Schopenhauer, me dall’alba.
Un’ora di un’ora di un’ora: fugace,
fuga’; e sembra non voler mai passare!
Tu mi dici: la vita.

Cosmo,
a te invidio solo il nome.

 

 


7.

 

Han sbarrato la strada: impera il morbo.
O è l’alluvione? L’estremo cielo dantesco.
Assetato, dal delirium reso sordo ed orbo,
preparo la fuga, tetro, lupesco.
(Wallenstein agirebbe altrimenti?)
Solo un tomo porto meco: la Bibbia, Giobbe.

Ho un sacco di cose da spifferare ai mecenati
di Roma: ad esempio, che la loro città
naviga contromano, che i ponti sono saltati,
che la Chiesa è l’antitesi della libertā.

Vedo plebi illuminarsi in extenso.

I cardinali sussultano, si raccolgono in concilio.
La sentenza? Il silenzio oppure il rogo. Ovvio: taccio.
E mi piace, debbo dirlo, questa pace inaspettata,
questo stare con il culo appiccicato s’una sedia.
Tanto, non per questo le stelle mi scappano,
e di notte una candela getta luce sui miei papiri.
Consegno le carte ad un messo fidato,
azzanno la lepre, ghigno beato:
in Cambrium e Francia già risuona il nome mio:
Galileo… Galilei.
Che Dio mi perdoni! Pecco pure di vanità.
Ma mi è tutto chiaro, della mia verità.
Saziatevi di questo caviale,
amici di ogni generazione,
e forse un giorno saprete spiegarvi
il senso di maldimare provato
camminando lungo la Prospettiva Newski
o sul fondo del canyon tra i grattacieli
di Wall Street.
Capoccia valigia calcoli e una ‘smokie’:
è così; e questo mio frugare altro non fu.
Vai, colomba, e poi ritorna quaggiù:
quant’è vasto il mondo? E DOVE SONO IO?
Terra incognita… Donna, il vino!

Il gufo vola senza far rumore,
ma dopo: uh-uuuuh! uh-uuuuh! la notte intera.

 

 



8.



La notte intera.
Tot-e-tot di sogni
ad occhi aperti (occhi di palude).
Ma i sogni dovrebbero essere
del sonno la coloratura.
Basta, tziganeria: mi faccio
semieccezione di un ricercatore.
Non mi mancano i ‘cum laude’,
e non mi sono mai augurato
tessuti di Fiandra.
A te, Prence, e a voi, sampietrini,
lascio il permesso d’accesso
all’Armeria Reale,
ai misteri del Vaticano.
Ed a quelli delle retrovie
lo show di Campo dei Fiori.
Diverso è il mio terrain:
un fianco d’Appennino
che da questa mia cripta
come un Hokusai rivivo sempre nuovo,
un volo d’Icaro dentro una mappa,
una storia tridimensionale;
l’Italia,
l’Ita’.


Link di riferimento: Piccola historia dei Grattacieli,  3. parte