Quel che abbiamo perduto

(‘Unsinniger Donnerstag’)

I tamburi hanno cominciato a suonare verso le 17: è Unsinniger Donnerstag. Il clou del carnevale sarà domenica, quando le varie associazioni sfileranno, ciascuna sotto un gagliardetto diverso e con gran sfoggio di uniformi di fantasia. Domenica ci sarà il Faschingszug, la sfilata di carnevale appunto, quella che chiude questo periodo di festeggiamenti e di balli in maschera. Ma oggi è qualcosa di diverso, oggi è Giovedì Grasso. Per tutta la giornata, c’è stato il sole, ma l’oscurità è calata abbastanza presto, com’è normale a febbraio; e c’è, vicino a casa mia, questa squadra di suonatori di tamburo, clowns bardati nei colori giallo e blu, che con il loro ritmo frenetico e tonante paiono voler chiamare all’adunata la cittadinanza.

“Usciamo?” propone mia moglie.

“Perché no?”

Krapfen di carnevale

Spengo il computer (lei la TV), ci rivestiamo (perché nel nostro appartamentino siamo soliti stare in pigiama non soltanto nottetempo) e ci proiettiamo all’esterno. 

Nel corso del pomeriggio ci sono state le sfilate dei bambini in maschera, ma ora, con le prime tenebre, sono gli adulti (beh… diciamo gli adolescenti, per primi; c’è un terzo circa o anche meno di adulti) a prendere possesso delle strade del paesotto medievale. Sono vistosi i costumi dei vari gruppi, delle diverse congreghe carnascialesche e-o classi scolastiche, ma l’aggressività cui spinge questa particolare data festiva fa paura. Ecco il perché della tammurriata, della pressante forza acustica al posto di… che so io, al posto di un dolce suono di flauti e trombe: occorre mostrare la propria potenza, scacciare la peste e far sapere al nemico che si è risorti.

Il mio parere sul carnevale rimane immutato, così come tutte le altre cose fin da quando avevo circa 18 anni: per me, il carnevale è una scusa bella e buona per ubriacarsi e fare scherzi atroci stando in (non importa se buona o cattiva) compagnia. Per mesticare il nulla comune facendone un pugno di ferro. Per litigare, per attaccare briga. Domani infatti – ne sono sicuro – leggeremo sul giornale i morti e i feriti. Mi ha sempre fatto paura questa libertà tracotante e invadente. Si sborniano e, anziché piccoli petardi, lanciano sotto i tuoi piedi o sotto le ruote della tua vettura razzi, granate, mine… Lo stare insieme finalmente spensierati e senza doversi assumere responsabilità alcuna nei confronti degli altri, soprattutto nei confronti di chi non vuole camuffarsi, ubriacarsi, festeggiare come e con loro, è dopante, lo capisco bene. Si eccitano, ridono dandosi grosse manate, si scambiano baci sollevando nuvolette di cipria e, con “oooh!” e “aaah!” buffoneschi, paragonano la grandezza dei rispettivi ordigni. 

Raramente ho festeggiato il carnevale in vita mia e, quando l’ho fatto, ho puntualmente perduto qualcosa. Non solamente il tempo: una qualche relazione si è interrotta, il mio rapporto con un determinato luogo o città si è deteriorato eccetera. 

Noi dovremmo assommare tutte le cose che abbiamo perso. 

Perché i danni da noi subiti o gli errori da noi commessi, davvero, si possono quantificare. Cosa che riesce difficile soprattutto a noi sensibiloni, a noi idealisti non attaccatissimi ai beni materiali, in quanto dentro la scatola cranica abbiamo un abbecedario e non un pallottoliere. Eppure è necessario affidarsi alla matematica: per comprendere dove stiamo, dove stavamo ieri e dove sbatteremo la testa domani. O dopodomani, quando ce ne andremo. Un numero invisibile orna ciascuna lapide: quella è la cifra della nostra vita, è il risultato effettivo e concreto (a posteriori tangibile) di 30, 50 o 80 anni di soggiorno sulla Terra. 

***

Oggi siamo usciti dopo pranzo, anzi esattamente dopo la siesta, un sonnellino breve ma ricostituente. Fuori, un sole allettante: impossibile rimanere a casa anche stamani. Scendere le scale vuol dire fare il check del sistema, testare la macchina: come stanno le ossa? E i muscoli? Ci sono dolorini infidi che debbono farci titubare? Presentimenti di crollo fisico? Ma no, siamo in formissima. Due giovincelli, proprio.

Il fiume: un’incantevole tavolozza di colori tra le due rive e, nel mezzo, l’acqua inondata da cotanta luce; una varietà niente male, sebbene febbraio non sia proprio generosissimo di verdi e gialli, che sono il pepe della pittura meglio riuscita. Verde e giallo, in tutte le sfumature, sono spumeggianti, corrosivi. Oggi mancano quasi totalmente ma ci si accontenta. 

Il livello dell’Inn è disperatamente basso. “Disperatamente” almeno per me, che borbotto: “Andiamo male!”

 Mia moglie mi fa notare che l’acqua risalirà quando si sarà sciolto il ghiaccio sulle montagne.

 Davvero? C’è ancora ghiaccio sui monti? “Vedrem.”

Il centro-città oggi è più vivo del solito. Già, è Unsinniger Donnestag! Normale, dunque. Una ricorrenza in cui si lavora regolarmente e, pur tuttavia, questo giorno, non festivo, viene perlomeno considerato festoso. Difatti, c’è chi festeggia. Soprattutto le scolaresche. Sul tardi si scateneranno anche i ragazzi più grandicelli. 

Nella nostra passeggiata scegliamo l’itinerario che ci riporta lontano dalla confusione, verso le frange di Wasserburg, oltre la periferia; non ancora in aperta campagna ma in paraggi dove la natura la fa già da padrona.

Tra tante varietà di bruno spiccano punti di tintura allegra, scoppiettii di bianco, giallo, violetto. Il fenomeno è dovuto ai bucaneve e ai primi crochi e ranuncoli. Non sono dappertutto: sono minuscole macchie vivaci schizzate qua e là e che bisogna quasi andare a cercare apposta, ma servono già a rifarci gli occhi. L’inverno è stato davvero lungo e pesante… e non è finito, purtroppo.

Ci inerpichiamo su per una delle montagnole che fanno da corona al borgo antico. Quassù c’è una fattoria che da qualche anno si vanta di essere “bio”. Proprio in cima. C’è una tavoletta di legno intagliata che informa il viandante che trattasi del “Burgstall” (“La Stalla sulla Rocca”). Gli animali, che altrimenti in estate sono fuori a brucare, si trovano adesso al riparo nei rispettivi bunker – piccole stalle di legno e cemento. Qui fuori, in un apposito casotto, è presente un distributore di uova fresche. Noi veniamo spesso a comprare le uova del “Burgstall”.

Unsinniger Donnerstag sarebbe, lo ribadisco, il Giovedì Grasso, ove “unsinnig” sta per “insensato”, “pazzo”: il giorno in cui ogni cosa è permessa. O meglio: la sera e la notte in cui ogni cosa è permessa. Anche lo stupro e l’omicidio, se sei abbastanza furbo da travestirti a puntino. 

Con la luce naturale, sono i bambini ad avere il potere. Cioè: li abbiamo visti uscire dalla scuola elementare a frotte, accompagnati da poche ma entusiaste maestrine. Loro, si capisce subito, sono quelle che hanno organizzato tutto, le vere garanti della tradizione. “Maestrine” sì; in età postmatrimoniale ad ogni modo, come chiunque può notare; e tutte alquanto bene in carne. Hanno scelto i loro propri costumi in maniera varia e distinta, per farsi riconoscere dai bambini che hanno in custodia. E, precisamente, in questo lungo serpente che striscia per le vie di Wasserburg am Inn bloccando il traffico, ciascuna di queste donne, come si arguisce osservando i vari segmenti del corteo, guida un gregge distinto. Noi ce ne stiamo ai lati. Vediamo alcune persone che lanciano dolciumi ai bambini, alcuni lo fanno addirittura dalle finestre dei primi piani. Qualche Pippi Calzelunghe regge in mano un sacco e, insieme alle amichette e agli amichetti, raccoglie le “leccornie” dal selciato per infilarle al sicuro: il bottino verrà spartito più tardi. 

Noi non vogliamo avvelenare nessuno. Rifletto che occorrerebbe lanciare ai piccoli qualche mela piuttosto, qualche pera o arancia, per essere sicuri che non diventino succubi dello zucchero industriale, sviluppando una dipendenza dannosa e quelle strane allergie da cui molti, presentemente, sono affetti. Forse l’Unsinniger Donnerstag è sponsorizzato dai dentisti: la prima cosa che i dolcetti – e le caramelle e la liquirizia e il gelée e i marshmallow e tanto altro – rovinano è la dentatura, appunto.  

“Ma come sono vestiti questi qua?” mi chiedo, addentrandomi nella bolgia.

Adesso è sera. Siamo usciti per la seconda volta, attratti dai tamburi. Il tempo qui fuori in strada è passato in fretta e allegramente, o meglio grottescamente, e ora le strane figure inidentificabili e i classici poveri pagliacci attorniano la fonte di un “dum-dum-dum! dum-dum…!” che non è più la tammurriata di prima (i suonatori di tamburo di cui più su, vestiti in giallo e con una parrucca azzurra in testa per dare l’idea di essere dalla parte dell’Ucraina, si sono dileguati insieme ai loro ingombranti strumenti) bensì è un pulsare ossessionante che proviene dalla postazione di un DJ. L’impianto infernale è strategicamente piazzato accanto a un banco delle mescite che funge da barattolo di miele scoperchiato: è infatti preso d’assalto da nugoli di mosche.

Due poliziotti passeggiano ai bordi della scena e, guardando i loro volti, si dubita che siano poliziotti veri. Sembrerebbero due tizi con la divisa da polizia recuperata da qualche parte giusto per questo giorno particolare. Ci decidiamo infine di catalogare il binomio ambulante per davvero come rappresentanti delle forze dell’ordine, anche se sono giovani quasi come la maggior parte dei partecipanti al festino.

Oggi, quando ancora splendeva il sole e gli scolaretti sfilavano, ne ho individuato uno di colore (un negretto; non si può dire? eppure io uso l’appellativo in senso simpatico!). Costui si aggirava tra gli altri frugoletti in costume con addosso una maglietta nera su cui spiccavano le lettere, in bianco: ‘POLIZEI’. Quasi una dichiarazione d’amore a un lavoro futuro.

Dispensare dolciumi ai bimbi significa scegliersene uno in particolare e mirare poi verso di lui per regalargli – buttandoglieli ai piedi, si spera, e non sulla testa – questi pensierini zuccherosi, in briosa carta colorata, acquistati al supermercato. Il gesto equivale ad adottare, sia pure idealmente e per qualche minuto, un bambino. Io ne ho adocchiato una…

Ho adocchiato un’infante carina, una principessina, vestita da orsacchiotto ma solo dalla cintola in su; indossava, giù, un tutù. Un mascheramento ibrido. Avrà avuto sette anni, forse meno. Ho adottato lei. Ce n’era un’altra con il musetto sporgente e addobbata e truccata credo da leoncino, ancora più piccola della prima e tenuta per mano dal papà, ma alla fine ho optato per l’orsacchiotta-ballerina. Se avessi avuto con me dei Twix, Mars, Bounty, marshmallow e via golosando, li avrei lanciati a lei. Solo che oggidì bisogna essere assai cauti. La narrazione generale vuole soprattutto noi zietti dall’aria bonacciona nascondere desideri segreti, covare oscuri-ma-non-tanto piani ignobili, abietti. Oggidì non puoi nemmeno prendere sulle gambe i tuoi nipotini o le tue nipotine: i loro genitori, sebbene siano parenti tuoi, ti guarderebbero con acido sospetto. Così, quando un bimbo ti si butta addosso alla guisa di un vivace e affettuoso cagnolino, devi scrollartelo di dosso, tenerlo a distanza. È triste ma, sia in Italia che in Germania, non posso più asserire a voce alta che io amo i bambini! Prova a farti sentire e si plasmerà, tra l’ascoltatore e te, una corrente di palpabile diffidenza.

Incubo di un uomo dai capelli grigi, ingobbito e dall’abitudine di distribuire canditi ai fanciulli: scorgere la propria faccia dai tratti delinquenziali stampata su un poster sotto la parola ‘WANTED!’ a caratteri cubitali e, in calce al manifesto, i suoi dati anagrafici con l’avviso a stampatello: “Acciuffatelo! È un pedofilo!”

La festa continuava e continua tuttora, scandita dai colpi cupi che escono dai woofer a disposizione del DJ. Per via dell’alcool che ormai scorre a ettolitri, le ultime barriere di timidezza e ritrosia sono cadute. Tra un po’, per le strade ci saranno i cadaveri alcolici. (Corre la diceria che ci siano dei ragazzi stranieri che vanno in giro appunto per raccogliere questi cadaveri, se femminili, per trascinarli verso il proprio loculo; durante la grande e famosa Festa della Birra di Monaco di Baviera, accade ogni notte. Almeno così raccontano. Raccontano che qualche malcapitata in deliquio viene raccattata e dislocata dai vari Alì, Abdul, Rashad o anche Giuseppe, i quali abuseranno di lei…)

 Dopo essere rientrato e aver svuotato la vescica, mi è bastato gettare uno sguardo all’orologio per spaurarmi: “Ancora le 21?”

Una volta, questa era l’ora in cui ci preparavamo a uscire. Ora, alle 21 – anzi, alle 20:50 per l’esattezza – mi ritrovo già di nuovo in pigiama e con la papalina, predisposto a ritirarmi dentro il sarcofago. Aggiungerei “e in pantofole”, se non fosse che nel mio appartamento ci si muove come in un ashram o in una moschea, ossia scalzi.

La birra bevuta presso Akin, il turco grasso, sporco e rognoso che conduce una spelonca impresentabile in fondo alla Ledererzeile, che è una delle strade principali del paese, mi ha relativamente sciolto la lingua. Così, per un po’, sorseggiando l’amara bevanda in piedi presso un tavolino e stando entrambi ben attenti a non toccarlo, ho raccontato a mia moglie di vecchi Giovedì Grassi e altri eventi consimili contraddistinti da gazzarre, pagliacciate, baccanali. Alcune cose non si possono spifferare liberamente e perciò le ho reingoiate per tempo, ma quanto andavo raccontando, che avrebbe dovuto essere una sequenza di avventurette semplici e innocenti, sbigottiva persino me. Così ero? Così eravamo? 

Quel che abbiamo perduto…

Io ho fatto i calcoli: personalmente, sono sul 1003. Ben sotto la media. Ci sono esistenze rovinose e rovinate e noi stiamo meglio al confronto. Alcune di queste figure che stanno alquanto in alto nella scala numerica dell’esistenza sciupata, le ho riviste stasera: no, non erano fantasmi, erano relitti reali, carcasse ambulanti che un tempo possedevano un nome e un’identita e intanto sono talmente sfigurati, storpiati, squinternati che si fa fatica a riconoscerli. 

Per ciò che mi riguarda: forse è più quanto ho guadagnato che quanto ho perduto. O, meglio: è più quel che sono riuscito a non perdere.

Inoltre – ovvio! – tanto, tantissimo, ho buttato via io stesso, volontariamente. Una sana prassi, quella di liberarsi della zavorra. Come le pulizie di primavera. Una sorta di repulisti. 

Aiuta a salvarsi.

Peter Patti

(i libri di questo scrittore sono su Amazon)