Assaggio di romanzo

Sovrappopolazione: un problema non di domani ma attualissimo
 
 
– K –

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Scendendo per l’antica Broadway sotto grandine grossa e pioggia acida, fummo sovente costretti a scavalcare corpi di dormienti e un paio di volte a rintuzzare gli assalti di turbe di bambini (ma, grazie al Rottweiler, ce ne liberammo senza troppe difficoltà). Finalmente, mentre il cielo si rischiarava, giungemmo davanti all’arco di pietra che si sollevava a un incrocio del Greenwich Village.
”Sono proprio curioso” irruppi. ”Voglio vedere dov’è l’entrata.”
Mi accorsi di star parlando da solo: loro si erano fermati vicino all’arco.
”Beh?” feci, tornando sui miei passi e scrollandomi i capelli zuppi.
Se avevo creduto di trovare una breccia nello sbarramento di vetrocemento (messo per otturare gli ingressi di tutte le stazioni della subway), avevo torto. Basil puntò un dito sul muro d’ardesia dell’arco.
”Sta’ a vedere” mi disse. Mi avvicinai di più e notai l’esistenza di una porta di ferro bullonata.
Basil mi scostò con una mano, poi gridò: ”Ahoi!”
Debolissima, una voce risuonò oltre il compatto metallo:
 
 
With what compulsion and laborious flight
We sunk thus low?
 
 
Faccia d’Angelo recitò di rimando:
 
 
Th’ ascent is easie then;
Th’ event is fear’d.
 
 
Al che, nel muro si spalancò, con solenne lentezza, una bocca picea.
”Sono versi di Milton” mi elucidò Basil, gustando appieno il mio sbigottimento. ”Dal Paradiso perduto. Sfido chiunque, nell’odierna Alphabet City, a riuscire a impararli.”
”Infatti” ammisi inebetito. ”È come una lingua straniera…”
Un fumo mefitico proveniva dalla breccia. Ulrika, X-Ray e il Rottweiler scivolarono all’interno. Io esitai.
”Beh?” sorrise l’inglese.
Th’ascent is easie then” cercai di farmi animo. Istintivamente trattenni il fiato, prima di addentrarmi nel buio totale.
All’interno l’aria era più fredda che in strada. Un fetore di natura indefinibile mi irritò le narici. Mi fermai di scatto, ma alcune mani anonime mi sospinsero gentilmente verso alcuni gradini di metallo. Mi aggrappai al passamano, stando ben attento a dove poggiavo i piedi. In fondo alla ripida scala si intravedeva un bagliore remoto. Sentii dietro di me la porta bullonata richiudersi con un tonfo che suscitò mille echi, e poi la voce di Basil che diceva: ”Yep, we sunk thus low!” Queste parole furono seguite dalla risata sua e di non so chi altri.
 Durante l’interminabile discesa tra fetidi vapori, mi parve di avvertire gli scossoni, i rullii, gli scricchiolii dell’isola di Manhattan, che gravava minacciosa sopra di noi. La scala girava su se stessa dentro una sorta di sfiatatoio costruito con mattoni d’ardesia – materiale evidentemente molto usato nel Ventesimo secolo. Il bagliore in basso rimaneva appena percettibile, anziché accentuarsi, e io stentavo a respirare. Forse quello non era esattamente l’Inferno, ma assomigliava di certo alla Cloaca Maxima.
Mi ritrovai, dopo un’angosciosa decina di minuti, su un marciapiede lungo forse sessanta metri che, da una parte e dall’altra, moriva là dove cominciavano due oscuri tunnel. Ulrika, X-Ray e il cane erano rimasti ad attenderci ai piedi della scala in compagnia di un nonnetto dall’aria arzilla. Il bagliore proveniva dall’unico tubo di vetro affisso alla volta di quella che anticamente era stata una stazione sotterranea. Il tubo conteneva un qualche gas: forse argon. Alla mia destra, su un vecchio cartello di alluminio o ferro battuto, riuscii a leggere, sia pure con difficoltà: ”Chamber St.”.
Mi volsi a guardare i tipi che sbucarono dallo sfiatatoio insieme a Basil: un caucasico, un afroamericano e due altri dai tratti spiccatamente orientali. Uno di questi ultimi mi declamò in faccia: ”Should we again provoke / Our stronger, some worse way his wrath may find / To our destruction: if there be in Hell / Fear…
Capii che apparteneva a lui la voce che era risuonata al di là della porta di ferro. Avrebbe continuato sulla stessa falsariga chissà per quanto, se Basil non lo avesse interrotto. ”Yako, e pure voi: lasciate in pace il nostro ospite”. Lo disse in tono pacato, quasi dolce, ma bastò affinché l’orientale smettesse bruscamente di espirarmi addosso quei termini desueti dal sapore arcaico.
Per un interminabile momento regnò il silenzio, interrotto solo dall’abbaiare impaziente di Killer, dal ronzare di certi cavi che correvano lungo i muri e dal brusio che fuorusciva da uno dei tunnel.
”Da questa parte!” ci sollecitò poi, ridendo, il vecchio arzillo, che si era già avviato in direzione del brusio. Teneva in mano una primordiale fiaccola accesa, sulla cui pestilenziale scia noi tutti ci ponemmo in fila indiana.
 
Due immagini da Soylent Green (in italiano 2022: i Sopravvissuti)
 
 


– L –
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Erano centinaia di migliaia e affondavano nel fango fino alle narici. Vivevano tra le stazioni di Chamber St. e Broadway-Nassau St., ovvero nell’unico tratto conosciuto della subway di Manhattan che non fosse ingombrato da macerie. Nell’antica Queens, a quanto si diceva, c’erano altri tratti di ferrovia del sottolivello colonizzati, ma si trattava appunto di una diceria, di un’ennesima informazione difficile da verificare.
Centinaia di migliaia! E avevano risolto parzialmente il problema del sostentamento piantando ovunque cardi messicani: gli stessi che, in superficie, crescevano insieme ai giaggioli tra le crepe nel cemento. I cardi erano ovviamente un’ottima alternativa al Rusky e si offrivano inoltre come temporaneo rimedio contro l’arsura, dato che erano assai succosi. La mancanza di luce diurna non sembrava influire oltremodo sulla crescita dei vegetali. Ma… potevano bastare al fabbisogno di tutta quella gente?
 
 

Peter Patti. Città dell’Alfabeto, su Amazon

 
 
 Fantascienza? (Presto) non più.