Racconto: “I corvi bianchi”

Racconto sborror (©) di franc’O’brain

 
 
I CORVI BIANCHI

 

Jean de Saint-Rémy si massaggiò gli occhi con nocche ossute. Seduto a metà sul suo arido giaciglio, guardava oltre i vetri della finestra, dove vedeva uno strano uccello appollaiato sui rami dell’albero morto che da sempre era piantato davanti casa. Quell’uccello… No, non era possibile. La sua spettralità doveva essere dovuta al cielo insolitamente opaco. Ma qualsiasi pensiero logico sull’apparizione gli fu interdetto dal rumore che d’un tratto fece tremare le scale di legno dell’abitazione. Scrollò il capo come per tornare alla realtà: incominciava per lui un’altra giornata di lavoro.
Si alzò ed espletò le abluzioni chino su un piccolo recipiente di latta; poi, senza asciugarsi il viso, indossò il solito camice grigio e stette ad aspettare.
La porta si spalancò sotto un violento spintone.



Il tizio era visibilmente straniero. Barcollò all’interno dello studio nella Rue Hoche con sguardo allucinato. Teneva le mani schiacciate sulla testa. − Doktor, Doktor  abbaiò.  Ho le folle.
− Che cosa?  domandò burbero Jean de Saint-Rémy, andandogli incontro e spingendolo verso la sedia.
− Le folle. Le folle  ripeté il tizio; e per un lungo, tremendo momento, mostrò solo il bianco degli occhi.  Nel cervello. Togli, ti prego.
“Quali folle?” pensò Saint-Rémy. “Forse fole. O intende proprio folle, nel senso di un mucchio di gente, alludendo alle voci che lo tormentano?”
− Male  disse lo straniero, stringendosi le tempie come a voler fare scaturire la materia grigia.  Male.
− Ho capito. Avete le pietre.
− Male, male  insisté il matto, indicando veementemente il proprio cranio.  Via, dottore, fai via.
− Uhmm.  Saint-Rémy passò in rassegna l’esaustivo campionario di strumenti che erano allineati sul tavolo. Sfiorò dapprima il perforator (un lungo ago senza occhiello), ma si decise infine per la tenaglia di Albucasis.
− Vi dovrò legare, capite?  disse allo straniero (tedesco, presunse). E, con una giravolta, si lanciò verso la sedia, abbassò le braccia dell’uomo e strinse le cinghie. Dopo avergli assicurato anche le gambe, il torace e il capo, sollevò il pesante arnese di ferro. La tenaglia di Albucasis prendeva il suo nome dall’insigne medico arabo Al-Zahrawi, anche se non era del tutto chiaro chi l’avesse veramente inventata.
L’uomo si dibatteva come un tarantolato.



− Buono, buono  disse Saint-Rémy con un po’ di fiatone.− Sono le famigerate pietre  ribadì. − Ora le togliamo, eh?
Appoggiò il freddo metallo sulle tempie percorse da vene pulsanti e cominciò a stringere come per spaccare una noce.
Le grida del tedesco erano strazianti e per un attimo sembrò che i bulbi oculari dovessero schizzargli fuori dalle orbite. Ma il cerusico non si fece impietosire: applicò tutta la sua forza sulle leve della tenaglia e non fu soddisfatto finché non sentì un crac! Tergendosi gli occhi dal sangue sprizzato dovunque, respirò a fondo, e le narici gli si riempirono delle esalazioni di liquame organico che si mischiavano con quelle dell’etere solforico, dell’aceto e dei preparati di antimonio, arsenico e mercurio. Poi osservò il risultato: nella calotta cervicale dello straniero si era aperta una crepa. “Bene!” si disse, tutto sudato e lui stesso con gli occhi di fuori.  Da qui in poi è un gioco da bambini  proferì incoraggiante al di sopra delle urla ormai rauche del paziente.
Gettò la tenaglia di Albucasis nella bacinella mezza piena d’acqua (che immediatamente si intorbidì) e prese dal tavolo un alambicco. Da lì versò dell’aceto dentro la ferita, finché il liquido non travasò, bagnando le guance tutte distorte del soggetto, il quale si scuoteva con vani torsioni delle spalle e del bacino.  L’etere mi è vietato dalla costellazione galenica  mormorò il medico, esclusivamente a proprio beneficio (poiché era sicuro che il tedesco non lo avrebbe compreso nemmeno se fosse stato in condizioni di ascoltare).

 

Jean de Saint-Rémy era “Maitre” non solo in anatomia, ma anche in filosofia, teologia e scienza degli astri, e le sue concezioni matematiche ed esoteriche gli avevano recato grande fama ben oltre i confini della Provenza. Nel suo studiolo in Rue Hoche erano passati nobili e rampolli di re, e nessuno di loro se n’era mai andato scontento. Il “cliente” di quella mattinata era evidentemente un cavaliere sassone di infimo rango, ma Saint-Rémy, che si era posto anima e corpo al servizio della scienza, non rifiutava favori ad alcuno. Le migliaia di individui appartenenti al popolino che aveva curati dall’epilessia o ai quali aveva predetto il futuro, lui non li metteva neppure in conto.
Con una pompetta risucchiò l’aceto, tornando a riempire per metà l’alambicco; quindi impugnò una lunga pinza.
− Buono, buono  fece accomodante, chinandosi sul bozzolo tumefatto che, spuntando tra i radi capelli biondi del paziente, presentava una sorta di bocca ribollente.
Affondò la pinza e, dopo aver rimestato per qualche secondo, sentì di aver fatto presa su qualcosa. Si mise a tirare.
Inaspettatamente, un grido di dolore più alto e stridulo si mischiò con le urla che già riempivano l’ambiente. Saint-Rémy si ritrasse spaventato. Quel grido… proveniva dalle latebre del cervello messo a nudo! Una voce come di sordomuto che, con un leggero rimbombo cavernoso, ascendeva attraverso la crepa craniale.
Il “Maitre” tornò ad avvicinarsi pian piano al paziente e scrutò dentro lo squarcio. E vide… un occhio! La pupilla, straordinariamente rossa, lo fissava.
Senza cambiare posizione, allungò una mano all’indietro, tastò con le dita i singoli campioni della sua professionale attrezzatura e afferrò un forcipe. Con quello cominciò a divaricare la ferita, finché il cranio non si schiuse come un fiore bello grasso. Ora nello studio regnava il silenzio totale: il paziente aveva perso i sensi e anche l’urlo che prima era fuoruscito dal suo interno si era spento. Saint-Rémy tornò a sbirciare… e si trovò faccia a faccia con un volto minuscolo, roseo e liscio, che esprimeva distintamente un senso di aspettazione.
“Un… Golem?” si chiese tremante d’eccitazione, memore della dottrina dei suoi padri semiti. Gettò a terra il divaricatore (che, rimbalzando sul pavimento, emise un suono quasi gaioso), agguantò gli orli slabbrati con tutt’e due le mani e allargò ulteriormente l’apertura. Quindi mosse di nuovo un passo indietro.
Dalla testa spalancata dell’assatanato saltò fuori un personaggio color rosa: un nanerottolo completamente glabro, all’apparenza asessuato, gli arti brevi, sei dita per mano, naso e bocca quasi assenti. Atterrò sull’impiantito con un platch! pressappoco aggraziato; i suoi movimenti erano impediti, però, dal cordone ombelicale che, simile a un lungo budello, ancora lo teneva ormeggiato al corpo-madre. Jean de Saint-Rémy ghermì con dita frementi un trinciante e, avvicinatosi cautamente alla creatura, si inginocchiò per recidere il cordone. Fu un’operazione non agevole, in quanto le fibre si rivelarono alquanto resistenti alle lame. Infine ci riuscì e, proprio in quella, il matto si ridestò. Il suo grugno, orripilante a vedersi (una spaccatura gli correva lungo la fronte e i suoi occhi erano distanziati l’uno dall’altro in maniera anormale), si puntò sul medico, quindi sul piccolo soggetto ritto nel mare di sangue, e l’ululato che scaturì dalla sua gola si avvitò nell’aria fino a incrinare i vetri dalla finestra. Nel tentativo di liberarsi dai saldi legacci, il poveretto prese a dimenarsi tanto da slogarsi le giunture e spezzarsi costole, vertebre, polsi e caviglie.
Ansante, Saint-Rémy arretrò ancora e focalizzò lo sguardo sull’innaturale parto. Le enormi pupille rosse lo fissavano come animate da curiosità e – notò il medico – il suo rivestimento epiteliale incominciava a brillare di luce propria. Volgendosi intorno, si accorse che i portenti non finivano lì: gli attrezzi sul tavolo emettevano raggi infernali e le statuine sulla credenza prendevano vita una a una. Anche se una parte del suo immenso sapere contemplava tali fenomeni, non li aveva mai sperimentati in prima persona. Vacillò, mentre il Golem gli rivolgeva un ghigno canzonatorio.


Il medico sbatté con le spalle sulla parete inclinata del fondo e roteò fino alla finestra. Fuori adocchiò il corvo ancora appollaiato sui rami dell’albero secco; non un corvo comune, ma un esemplare mai visto prima: tutto bianco e apparentemente cieco. Ogni cosa era cominciata con l’arrivo di quell’uccellaccio demoniaco. Oppure – si chiese Saint-Rémy -, forse il corvo rappresentava solamente un presagio, l’avanguardia di tutta una serie di maledizioni che, come le stelle gli avevano vaticinato quand‘era giovane, prima o poi si sarebbe abbattuta su di lui quale massimo rappresentante di una stirpe eternamente dannata?



Turbato, tornò a occhieggiare la scena nello studiolo. La creaturina beffarda aveva ora rivolto la sua attenzione al corpo che l’aveva generata. L’assatanato tedesco, nel tentativo di liberarsi dalle cinghie, aveva finito per autosopprimersi. Non era altro che un mucchietto di ossa straziate, frantumate. Si era attorcigliato nello spasimo finale attorno alla sedia di tortura, immerso in una pozza color cremisi, la testa sprecata, i denti che uscivano dagli alveoli e la schiena e il collo rotti. Un leggero respiro ancora gli sollevava e gli abbassava il torace.

Il Golem, o cos’altro fosse, si appressò al semicadavere e, con l’ausilio di denti piccoli ma affilatissimi, prese a lacerare la carne palpitante.
Nel mentre, qualcuno si era stagliato sul rettangolo della porta: Cesarina. Si trattava della vecchia sguattera. Arrivava ogni mattina per mettere ordine nel laboratorio-abitazione di Saint-Rémy. Una figura sciapita, insignificante, a suo stesso dire figlia di briganti sunniti, che mai aveva esternato segni di raccapriccio alla vista di sangue, mucopus, organi spogli e frammenti ossei. Il medico la vide esitare sulla soglia, per la prima volta stravolta, gli occhi picei piantati sulla sconvolgente scena. Dopo un po’, recitando un’oscura formula pagana, la vecchia lasciava cadere il secchio, lo straccio e gli altri suoi volgari arnesi di lavoro, si metteva in ginocchio accanto al roseo nano infernale e, in preda a un evidente rimescolamento mistico, si denudava il flaccido seno e le fetide pudenda.

 

Sbigottito, Jean de Saint-Rémy distolse lo sguardo e tornò a indirizzarlo all’esterno. C’era una certa agitazione per le vie della cittadina; persino il corvo bianco ne sembrava attratto e rivolgeva le sue pupille omeriche verso il punto da cui proveniva un fragore crescente. Il vetro della finestra era ridotto a una ragnatela a causa delle incrinature; il medico riuscì ad aprire uno spiraglio (le cerniere arrugginite gemettero) finché non poté sporgere il capo. A un crocevia poco lontano si era ammassata una folla di armati senza uniformi: saraceni che agitavano scimitarre, lance e pugnali ricurvi.




− I mori!  non poté trattenersi dall’esclamare, allarmato. Ma né Cesarina (la strega rachitica era caduta in un’esaltazione idolatra senza speranza di ritorno), né tantomeno il mostricciattolo (che intanto aveva rivolto la sua famelica attenzione verso la nuova arrivata), lo prendevano in considerazione.
Saint-Rémy attraversò lo studio su gambe incerte, perfettamente ignorato. Con la coda dell’occhio ravvisò come la piccola creatura rosa si trasformasse in un insieme di rospi, lucertole o animali consimili che prendevano d’assalto la sguattera; traballò lungo le traballanti scale, si spinse in avanti con la testa ottenebrata sotto l’ottenebrato cielo e guardò in fondo alla stradina. Al di sopra della bruna soldataglia volteggiava un intero stormo di corvi bianchi che osservavano ciechi la foresta di turbanti e di spade dell’Islam.
Saint-Rémy barcollò all’indietro, inciampò sul lastrone che fungeva da marciapiede e si ritrovò seduto. Il suo cipiglio stralunato aveva un che di comico, ma non c’era nessuno a guardarlo. Dov’era il resto della gente? Possibile che i suoi concittadini fossero già stati sgozzati, scannati, macellati dall’orda di infedeli? La sua mente venne attraversata da apocalittiche immagini di distruzione: una veduta del mondo dopo il cataclisma biblico. Prese nota di come il branco nemico cominciasse a muoversi verso di lui. Riuscì a rimettersi in piedi, seppure a fatica; con occhi strabuzzati contemplò le scale della sua casa, ma schiacciò l’idea di salirle e si avvicinò invece all’albero morto, i cui rami erano ora appesantiti da una vera e propria nube di ali e penne bianche.
L’aveva sempre considerata una grande pianta maligna e più volte aveva pensato di farla abbattere. In tempi lontani era stata forse una mandragola, uno di quegli alberi che giustificano la loro presenza offrendo i loro frutti agli uccelli. Ma questo albero particolare non aveva più frutti da offrire, chissà ormai da quanti secoli; eppure, gli anemici volatili, quei corvi bianchi dall’aspetto voracissimo, sembravano ugualmente saziarsene e goderne.
Saint-Rémy si rincantucciò nel cavo dell’albero, immerso in meditazioni sulla morte e sul gelo dell’aldilà. Sopra di lui lo strano stormo, davanti a lui la torma efferata, scortata da uno stendardo su cui campeggiava la mezzaluna islamica.
“Siamo tutti pellegrini in questa vita” filosofeggiò; “rischiamo di imbatterci nei più grandi pericoli se lasciamo la via maestra, la via del Bene.”
Presto si vide attorniato da visi deformi e mostruosi. Un carosello angoscioso. Nessuno comunque sembrava badargli. I saraceni non lo avevano ancora scoperto? Non gli sembrò che la sua presenza dentro la morta mandragola attirasse la loro attenzione… Si erano accampati lì intorno, nella Rue Hoche, e festeggiavano la presa della città. Alcuni di loro suonavano strani strumenti: uno soffiava nell’ano di un maialino vivo, che emetteva un rumore come di cornamusa. Un uomo molto obeso e completamente nudo (Saint-Rémy riconobbe senza ombra di dubbio il borgomastro) veniva usato come tamburo vivente: un paio di saraceni gli percuotevano il ventre gonfio con mazzapicchi formati da membra umane. Una giovane cittadina, di contro molto magra, veniva sospinta di qua e di là da questi abbronzati e allegri figuri mentre un “suonatore” le pizzicava il costato utilizzando una cresta iliaca a mò di plettro.
Jean de Saint-Rémy perse i sensi e, quando li ritrovò, scoprì che l’ora era sempre la stessa , il cielo tuttora bieco e torbido, e che la festa aveva raggiunto l’apice. Con i cadaveri era stata formata una montagna le cui pendici sfioravano l’ingresso della sua casa, e i mori facevano a gara a chi la scalava più velocemente. A quanto pareva, solo i bambini più teneri d’età erano stati risparmiati: allineati sull’altro lato della strada, erano costretti ad assistere all’atroce spettacolo. Un “flautista” fingeva di volerli allietare zufolando dentro uno strumento di carne che, a giudicare dalle coppie di pendagli che vi penzolavano come frutti pelosi, doveva essere costituito da una serie di organi riproduttivi maschili cuciti insieme. Alcuni dei prigionieri ancora in vita vennero seppelliti verticalmente, con la testa di fuori, e poi finiti dagli zoccoli di cavalli lanciati in corsa. E, quando il Golem si precipitò fuori di casa cercando altro cibo, nessuno dei saraceni sembrò esserne impaurito; anzi: non lo consideravano nemmeno, come se non lo notassero…
Saint-Rémy stava ancora riflettendo su questo inconcepibile particolare quando uno dei guerrieri si avvicinò all’albero con una fiaccola accessa e vi appiccò il fuoco.



Il suo corpo bruciò; e bruciò per quella che sembrava essere una vita intera. L’ultima cosa che gli si presentò alla vista fu il faccino beffardo del Golem. Il mostricciattolo gli sgranava addosso due occhi purpurei. Sulla fronte aveva impressa una parola: “Emet”. 

 

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